Di solito la restrizione verso i cibi è progressiva: essendo le calorie il problema, il paziente anoressico comincerà a rifiutare prima i lipidi- i cibi grassi, dunque carne, formaggi uova- poi i carboidrati- come pasta, pane e simili- fino a ridurre la propria dieta a pochi alimenti in genere dallo scarso contenuto energetico. Nei casi più gravi, per evitare la sensazione di gonfiore, possono giungere al rifiuto dei liquidi (le pazienti smettono di bere) con conseguenze devastanti per l’organismo: dopo due giorni di privazione di liquidi, sopraggiunge la morte in quanto le cellule non riescono più a promuovere le reazioni chimiche fondamentali per mantenere l’omeostasi. Uno dei comportamenti più comuni è il vomito autoindotto subito dopo i pasti volto ad evitare l’assorbimento dei nutrienti, oppure l’assunzione di grandi dosi di lassativi per liberarsi dei liquidi in eccesso. Il vomito è molto rischioso, in quanto causa la dilatazione dei vasi a livello della gola che, col passare del tempo, possono ledersi causando il “vomito di sangue” che può avere gravi conseguenze. Per quanto riguarda i lassativi, soprattutto se coniugati a dieta ricca di fibre, il rischio è di avere complicazioni a livello intestinale che possono portare a problemi di contrattilità dell’intestino e nei casi più gravi prolasso rettale.
Oggi si parla molto di anoressia, sembra che in questi ultimi tempi la malattia si sia diffusa notevolmente raggiungendo persino le preadolescenti. Come spiegare questo aumento? Nonostante il disturbo sia presente sin dai tempi antichi (alcuni studiosi ritengono che gli asceti medievali non fossero altro che anoressici), al giorno d’oggi assistiamo ad un aumento notevole di casi, ed il dato più preoccupante riguarda gli esordi premenarca, cioè prima della comparsa della prima mestruazione. Una deprivazione alimentare così precoce può portare a esiti disastrosi come l’inibizione, rallentamento o addirittura blocco dello sviluppo sessuale. Studi di genetica del comportamento rivelano che il disturbo ha alla base una suscettibilità genetica, e che quindi la colpa non sia da addossare completamente ai mass media ed alla visione di bellezza femminile che propongono, nonostante un ambiente con tali caratteristiche possa favorirne la slatentizzazione.
Ma come si instaura il meccanismo di rifiuto del cibo? Quello che è certo, è che viene coinvolto il circuito dopaminergico di reward, cioè la rete cerebrale con ruolo centrale nel rinforzo di risposte adattive all’ambiente, nel promuovere cioè comportamenti che favoriscano la sopravvivenza dell’individuo. Sono le stesse aree che stimolano alcune droghe causando così dipendenza. Vista questa considerazione alcuni studiosi parlano di dipendenza da privazione: è questo fenomeno infatti che rende le pazienti anoressiche capaci di resistere alla fame. Inoltre, l’organismo privo di cibo mette in atto delle strategie che, in condizioni naturali, dovrebbero massimizzare le possibilità di sopravvivenza, e che consistono nell’innalzare il livello di funzionamento rendendo il soggetto iperattivo, facendolo sentire pieno di energie. Uno studio dell’ottobre dello scorso anno condotto da Valerie Compan del CNRS di Montpellier, ha paragonato gli effetti della deprivazione di cibo con gli effetti di una delle droghe stimolanti più diffuse tra i giovani, l’ecstasy, cogliendo una somiglianza notevole: i topi che avevano assunto la droga rifiutavano il cibo quando gli veniva offerto. E non è solo una questione di cibo. L’alterazione dei circuiti di reward sembra avere effetti più a largo raggio, impendendo persino di provare piacere per altre attività, non ultimo il sesso.
La difficoltà di godere dei piaceri della vita inoltre spesso coincide con altri tratti personologici che contraddistinguono gli anoressici, nel 80%-90% prima dell’esordio del disturbo presentavano disturbi d’ansia e spesso, per il loro perfezionismo e per i rituali che mettono in atto al fine di tenere a bada l’ansia, vengono accostati agli affetti da disturbo ossessivo compulsivo.
Dagli anni sessanta sono stati provati molti farmaci per tentare di guarire questi pazienti, compresi antipsicotici- che in genere vengono utilizzati per la cura di malattie psichiatriche gravi come la schizofrenia- ed i tanto discussi antidepressivi, ma, nonostante molti psichiatri consiglino una terapia fondata sula farmacologia ponendo l’accento sulle componenti biologiche del disturbo, la ricerca non ha ancora individuato un composto che possa sortire effetti rilevanti.
Per quanto riguarda le psicoterapie, negli ultimi anni si è data grande importanza alle terapie di gruppo di stampo sistemico relazionale, che si focalizzano non sul singolo soggetto, ma sul tutto il nucleo familiare, intendendo la malattia di uno come l’espressione di un disagio proprio del sistema famiglia. Questo tipo di approccio in genere restituisce buoni risultati. Si è inoltre ricorso ai cosiddetti gruppi di mutuo aiuto, nei quali il terapeuta assume il ruolo di facilitatore, una figura che promuove il dialogo all’interno del gruppo, così che si possano condividere difficoltà, attriti ed incomprensioni.
Nei casi più gravi è consigliato il ricovero del paziente in ospedale, in modo che possa essere assistito costantemente. Per patologie come l’anoressia, se la situazione si fa critica, in Italia è ammesso il TSO, o Trattamento Sanitario Obbligatorio, cioè il ricovero della persona anche nel caso in cui questa non ne sia consapevole o non sia consenziente.
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Pubblicato da:
Emanuele Tolomei
di espertoseo.it