google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0 SALUTIAMOCI google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0

Le virtù dell'ozonoterapia e idroterapia ozonizzata

L'ozonoterapia è una pratica medica specialistica ancora poco diffusa e talvolta osteggiata dalla medicina ufficiale, nonostante produca buoni risultati sui pazienti che vi si sottopongono. Del resto le proprietà curative dell’ozono - una molecola molto instabile e quindi altamente reattiva scoperta in Germania nel 1840 – non sono ben note ai più, anche se tutti sanno quanto l’ozono della stratosfera, filtrando le radiazioni ultraviolette nocive, sia indispensabile alla vita sulla Terra.

L'ozonoterapia nasce in Germania con Erwin Payr e E.A. Fisch, i quali accertarono casualmente i benefici apportati da una grande quantità di ozono presente nell’aria sulle ferite dei soldati ricoverati in un ospedale da campo. Dopo le ricerche di J. Hansler e H. Wolff, che ne estesero l’uso in svariati campi della medicina, fu l’ortopedico italiano Cesare Verga a constatare per primo l’efficacia dell’ozono nella cura di dolorose patologie muscolari come ernie discali, artrosi cervicali e altre osteo-artro-miopatie.

L’ozonoterapia consiste di iniezioni intramuscolari di una miscela di ossigeno e ozono ed è a tutt’oggi considerata la meno dolorosa e la più efficace terapia delle ernie discali cervicali, dorsali e lombari. Ma le proprietà antibatteriche, cicatrizzanti e ossigenanti di questa molecola sono state anche applicate con successo nella cosmetica e nei trattamenti benessere: molto diffusa è l’idroterapia ozonizzata, un trattamento estetico che restituisce luminosità e vigore alla pelle, favorendo l’eliminazione di tossine.
 
pubblicato da: Fabio Cesali

Amaxofobia: Paura di guidare

La paura di guidare può configurare disturbo che porta all’evitamento di tutte le situazioni in cui, la persona affetta, potrebbe trovarsi a guidare un’auto o un motoveicolo, questo disturbo è detto amaxofobia.

I soggetti affetti provano un fortissimo disagio all’idea di guidare, e, se prevedono di doverlo fare, manifestano una evidente ansia anticipatoria. I sintomi però non sono solo psichici o comportamentali. Troviamo le manifestazioni somatiche tipiche delle fobie, come aumento del battito cardiaco, dispnea, sudorazione, nei casi più gravi, persino svenimenti o attacchi di panico.
Le manifestazioni sintomatologiche inoltre sembrano variare di intensità in base alla prossimità della situazione ed in base a quanto sia necessario affrontarla. Inoltre, qualora il soggetto si trovasse costretto a guidare, percepirà in maniera più intensa la paura in contesti in cui potrebbe risultare difficoltoso fermare la macchina, ad esempio in prossimità di gallerie, curve, in autostrada ecc…
Nonostante spesso nella storia di queste persone si trovino cause ambientali scatenanti, come incidenti stradali, la gravità di questi non sembra essere correlata con l’insorgere del disturbo; spesso infatti si manifesta anche in seguito a banali tamponamenti e tuttavia provoca conseguenze estremamente invalidanti.
Una conseguenza di questo disturbo è la demoralizzazione della persona, che, in genere, più spesso va incontro a situazioni stressanti connesse alla guida, più difficilmente sarà disposta a sopportare l’ansia, il disagio e la vergogna provati.
Per combattere le fobie, lo strumento terapeutico d’elezione è la terapia cognitivo comportamentale, nella quale il soggetto viene addestrato da uno psicologo a controllare le sue reazioni ansiose. Questa terapia si rifà alla teoria behaviorista della fobia come risultato di un condizionamento: una reazione adattiva scatenata da un oggetto pericoloso, viene poi generalizzata ad oggetti simili che pericolosi non sono, nel caso specifico le automobili. È vero che guidare a velocità sostenuta, imprudentemente è un comportamento pericoloso, ma non lo è altrettanto il guidare coscienziosamente. L’obiettivo della terapia è quindi scindere la reazione di paura dallo stimolo innocuo. Questo viene fatto grazie all’allestimento di setting terapeutici atti a presentare al paziente lo stimolo pauroso in condizioni controllate.
Efficace nel trattamento delle fobie si è rivelata anche l’ipnosi che, utile nell’indurre stati di rilassamento profondi, può agire anche attraverso suggestioni post-ipnotiche, cioè istruzioni date al paziente in seduta che verranno eseguite nelle situazioni fobiche e che lo aiuteranno ad affrontare lo stimolo in maniera più sicura.
Nei casi più gravi, attraverso la terapia della regressione, l’ipnoterapista fa ritornare la mente del soggetto all’evento scatenante della fobia. Una volta compresa l’origine può essere più semplice eliminare il sintomo.

Dr. Lorenzo Magri psicologo


Pubblicato da: Emanuele Tolomei

Depressione stagionale: curarla con la terapia della luce

Cosa sono la depressione stagionale e la meteoropatia? E’ possibile una cura per questi disturbi?
Nel 1992 per le forme più serie negli Stati Uniti è stata introdotta come trattamento non farmacologico privilegiato la light therapy (terapia della luce) o fototerapia. Il successo terapeutico riferito dalla letteratura scientifica è di circa il 75%, dato molto soddisfacente.

La pratica consiste nell'esposizione del paziente a luce di alta intensità, grazie ad un sistema di tubi fluorescenti che emanano luce ad ampio spettro, con temperatura del colore identica a quella solare.
Di norma le sedute sono associate a trattamento con uno psicologo, e intensificate nei periodi di maggior difficoltà psicologica.
Vengono effettuate per lo più durante le prime ore del giorno, soprattutto nei pazienti soggetti a ipersonnia e a difficoltà nel risveglio mattutino.
L'esposizione dura dai 40 minuti fino alle 3 ore giornaliere, e i primi risultati sono evidenti già nella prima settimana.
Il meccanismo della luce-terapia è molto semplice: essa abbassa il livello ematico della melatonina, e aumenta l'efficacia dei neurotrasmettitori antagonisti della depressione, come ad esempio la serotonina.
Il risultato è un restaurato equilibrio del ritmo sonno-veglia, una sincronizzazione tra ambiente interno ed ambiente esterno all'individuo.
Fino ad ora non si sono riscontrati effetti collaterali, se non delle controindicazioni per i pazienti diabetici o per coloro che soffrono di malformazioni e disturbi alla retina.
Si tratta infatti di una tecnica in espansione, che sempre più spesso viene applicata per le patologie e i disturbi più gravi, dalla cefalea ai disturbi alimentari, dall'alcolismo alla jet lag syndrome. Per tutti questi disturbi rimane comunque di prima scelta un trattamento di tipo psicologico.

Dr. Lorenzo Magri psicologo
Pubblicato da: Emanuele Tolomei

Eritema da pannolino: come prevenirlo e curarlo

L’eritema da pannolino e’ un problema che posso trovarsi a dover affrontare sia le mamme alla loro prima esperienza sia quelle più navigate e può interessare il loro bambino per tutto il periodo che va dalla nascita sino al secondo anno di vita.
Consiste in un’irritazione della pelle provocata dal contatto col pannolino e presenta arrossamenti, fastidio durante le operazioni di pulizia e piccole irritazioni puntiformi o a chiazze.

Ma quali sono le cause?

- Innanzitutto un contatto prolungato con l’ammoniaca presente nella pipì e con i batteri contenuti nelle feci. Se c’è diarrea, è il suo contenuto acido a determinare l’infiammazione;

- l' uso dei pannolini che impediscono la traspirazione della pelle;

- in casi più rari, può essere causato da allergia a detersivi e saponi usati per la pulizia personale del piccolo o per lavare i suoi indumenti.

Con piccoli accorgimenti, il problema si risolve nell’arco di qualche giorno; ma se la situazione non migliora, potrebbe trattarsi di un’infezione da funghi (la più comune è la Candida Albicans).

Cosa fare dunque?

- la mamma deve cambiare i pannolini al piccolo più spesso;

- bisogna lasciare il bambino scoperto più tempo possibile, e se la temperatura lo consente, potrà anche dormire senza pannolino, avvolto in un telo;

- per la detersione va usata acqua tiepida e solo 1- 2 volte al giorno un sapone neutro delicato;

- il sederino e le pieghe inguinali vanno asciugati a dovere;

- evitare l'uso di fazzoletti detergenti e usare sempre acqua corrente;

- utilizzare, senza abusarne, una crema che lenisca l'arrossamento e il fastidio.

Consultare il pediatra quando:

- compaiono pustole e vesciche estese;

- il viso del piccolo appare paonazzo;

- c’è sanguinamento e se compare febbre intorno ai 38° ;

- l’irritazione determina dolore e pianto;

- l'infiammazione non guarisce ma si estende ad altre zone.

di Imma Manna

di Giaden Cosmetici srl

Le mille virtù di un bagno idromassaggio

Dopo otto ore impiegate a sbadigliare contro uno schermo e due ad imprecare nell’alveo del fiume di auto che inonda le nostre città, cosa c’è di più rilassante e rigenerante per i nostri poveri corpi – talvolta perfino corredati di anima – che abbandonarsi al voluttuoso piacere di un bagno idromassaggio?
Mettete su un bel sottofondo musicale (magari abbandonate per una volta le vostre playlist techno-metal), spegnete tutte quelle luci al neon e seguite la scia delle candele profumate per immergervi nella vostra vasca da bagno pullulante di bollicine d’aria. Quella sensazione di piacere che presto si diffonde nasce dal rilascio di endorfine stimolato dalla pressione esercitata dal massaggio; se ancora non lo avvertite c’è qualche problema con le bollicine … o forse siete voi che proprio non volete concedervi questo prezioso relax.
Ma i benefici dell’idromassaggio non sono solo di natura mentale e ludica: ve ne accorgerete quando, usciti dalla vasca dopo un bagno di non più di mezzora, vi guarderete allo specchio e vedrete il vostro viso pulito e levigato dalle imperfezioni. Questo perché le bolle d’aria e il flusso dell’acqua aprono i pori della pelle distendendola e tonificandola: approfittatene facendo uno scrub prima di immergervi oppure versate nella vasca tonici, sali ed essenze … ma tenetevi alla larga del bagnoschiuma se non volete rischiare un inondazione!
Ormai avrete capito che una vasca idromassaggio è un vero e proprio scrigno di tesori per il benessere mentale e per l’aspetto fisico, per non parlare dei benefici strettamente fisiologici apportati dalla temperatura dell’acqua e dalle sue preziose bollicine in movimento: la compressione e la decompressione dei tessuti infatti, favorisce la circolazione sanguigna e linfatica, nonché il drenaggio dei liquidi responsabile della tanto temuta cellulite. Le infinite virtù dell’idromassaggio combattono anche reumatismi, artriti, malattie respiratorie e perfino l’insonnia, a patto che non vi addormentiate nella vasca ipnotizzati e cullati dal gorgogliare dell’acqua!

di Salvatore Cedra
Link: vasche e box idromassaggio

Gli usi e le virtù dell'Echinacea

Da sempre gli indiani d'America la usano per curare le ferite. L'industria cosmetica, oggi, ha percepito l'enorme potenzialità di questo principio attivo per curare cellulite e rilassamento cutaneo. I prodotti cosmetici a base di echinacea consentono, infatti, di contrastare efficacemente la pelle a buccia d'arancia e la perdita di tonicità del nostro corpo.
Echinacea è una pianta tipica dell'America del Nord e del Messico ma oggi è coltivata in molti paesi temperati del mondo.
Ne sono segnalate nove specie più due varietà. In terapia vengono però utilizzate esclusivamente le specie E. purpurea, E. angustifolia e E. pallida.
Le piante del genere Echinacea sono per lo più perenni, con infiorescenze a capolino, generalmente solitario. I fiori presentano al centro una brattea rigida e acuminata dalla quale deriva il nome la cui radice greca “echinos” significa riccio. I fiori ligulati nelle sfumature dal rosa al porpora, fanno dell’Echinacea anche una bellissima pianta ornamentale.
Le Parti usate sono le radici e le parti aeree.
Gli indiani Sud Dakota la utilizzavano per favorire la cicatrizzazione delle ferite e curare sifilide e morsi di serpenti.
L'echinacea, grazie alle sue proprietà immunostimolanti, è una delle piante medicinali più ricercate nel panorama fitoterapico italiano.
La crescente attenzione verso l'echincacea deriva dalla sua capacità, in gran parte confermata da studi farmacologici, di aumentare la resistenza alle infezioni. Questa pianta si è dimostrata particolarmente utile negli stati influenzali e nella prevenzione delle malattie da raffreddamento.
All'echinacea vengono attribuite anche proprietà anticancerogene che vanno però suffragate da ulteriori dati di rilievo clinico.

In cosmesi, l'echinacea è considerata un principio attivo molto utile nella cura della cellulite e nei trattamenti rassodanti. Infatti grazie alle sue proprietà cicatrizzanti, le sue proprietà leviganti ed elasticizzanti permettono di contrastare efficacemente la pelle a buccia d'arancia e il rilassamento cutaneo, per avere un corpo sempre in forma e sempre giovane.

pubblicato da: Imma Manna
di Giaden Cosmetici srl

Tumore al seno: la Prevenzione di base

Pensare che i tumori e in particolare il tumore del seno non siano prevenibili è un grosso errore. Altrettanto grosso è però l’errore di pensare che il tumore al seno possa essere prevenuto con la mammografia, un esame che viene troppo spesso erroneamente spacciato come preventivo. Occorre fare molta attenzione a non confondore diagnosi precoce e prevenzione: con il primo termine si descrivono interventi mirati a diagnosticare il prima possibile una malattia in atto. Tra i sistemi di diagnosi precoce ricordiamo appunto la mammografia, il PAP test e la densitometria ossea. Con prevenzione invece si intende una procedura medica o di stile di vita atta a ridurre l’incidenza di una determinata malattia. Nel settore della prevenzione la diagnostica per immagini è spesso insufficiente perchè in grado di vedere solamente danni d’organo e non squilibri biochimici e molecolari. In patologie come quelle tumorali per esempio possono passare anche 30 anni dalle prime alterazioni molecolari ad un danno d’organo visibile con indagini radiologiche.

Esiste molta confusione sul significato dei termini diagnosi precoce e prevenzione, confusione che spinge in particolare le donne a sottoporsi ad un numero eccessivo di esami radiologici nell’illusione di prevenire lo sviluppo di tumore. Pensiamo per esempio all’uso della mammografia:

- La mammografia riduce l’incidenza di tumore al seno? No. La mammografia è un indagine che può aiutare nella diagnosi precoce ma non nella prevenzione. In termini numerici di riduzione del rischio assoluto se 1.000 donne partecipano ad uno screening mammografico per 10 anni, 1 morte per tumore al seno verrà evitata. In termini di persone che devono essere trattate per salvare 1 vita queste sono 1000 per 10 anni.

- Una diagnosi precoce significa una riduzione della mortalità? Non in tutti i tumori. Una diagnosi precoce può ridurre la mortalità ma non è automatico che lo faccia. Per esempio nel caso di un tumore senza cura, una diagnosi precoce comporta solo un tempo maggiore in cui il paziente deve vivere sapendo di avere un tumore.

- Una mammografia positiva significa avere un tumore? No. Nel caso di una prima mammografia 1 caso su 10 risultati positivi ha effettivamente un tumore. Nel caso di mammografia ripetute annualmente o ogni 2 anni per 10 volte, 1 donna su 2 può aspettarsi di risultare positiva ad un esame pur non avendo il tumore.

- La mammografia è utile a ridurre la mortalità? Sembra esserlo nelle donne sopra i 50 anni ma non lo è in quelle sotto i 50. Anche nelle donne sopra i 50 anni i benefici sono modesti. In termini di riduzione del rischio assoluto considerando una popolazione di donne che dai 50 anni si sottopone a mammografia ogni 2 anni per i successivi 20 anni, vengono salvate 4 vite ogni 1000 di queste donne.

Inoltre va tenuto presente che esiste un rischio di indurre un tumore al seno a causa delle radiazioni emesse dal mammografo. Questo rischio aumenta in modo linerare con la quantità di radiazioni a cui la persona è stata esposta. Quindi tanto prima una donna inizia a fare regolarmente mammografie tanto più alto sarà il rischio che raggiunge un picco 15-20 anni dopo l’esposizione. Secondo le stime più recenti, su 10.000 donne che si sottopongono a programmi di mammografia a partire dai 40 anni, da 2 a 4 svilupperà un tumore da radiazioni e 1 perderà la vita per questo. Infine la mammografia, soprattutto nelle donne più giovani, diagnostica molti carcinomi duttali in situ che in oltre la metà dei casi non evolvono in un tumore invasivo e quindi pericoloso. La diagnosi quindi comporta successive procedure invasive spesso inutili.
Cosa vuol dire tutto questo? Le donne devono forse rassegnarsi a non poter fare nulla per prevenire il tumore della mammella? No, ma è necessario passare da una semplice diagnosi precoce poco efficace, molto costosa e con una certa dose di rischio ad un vero programma di prevenzione.

Fattori di rischio

I fattori di rischio più noti per il tumore al seno sono:

- Predisposizione genetica

- Menarca precoce

- Menopausa tardiva

- Dieta ricca di grassi

Tuttavia questi fattori di rischio sono presenti solo nel 30% delle donne. Per esempio la presenza di geni ad alto rischio (BRCA1 e BRCA2) probabilmente incide solo per il 4% di tutti i casi di tumore al seno. Evidentemente quindi sono altri i meccanismo patologici alla base di questo tumore, meccanismi che non vengono presi in considerazione ne dai programmi di screening ne dalle comuni analisi dei fattori di rischio. Inoltre se è vero che il 70% dei tumori al seno avviene proprio in quelle donne che non presentano i classici fattori di rischio, è altrettanto vero che a rischio sono quindi probabilmente tutte le donne.

Come si sviluppa il tumore del seno

Come negli altri tumori, anche in quello del seno la malattia inizia quando una cellula (che normalmente non si divide), perde proprietà di auto-regolazione, si traforma ed inizia a dividersi all’infinito. Negli stadi più avanzati alcune cellule possono staccarsi, infiltrare i vasi ed attecchire in tessuti distanti dando luogo a metastasi. Questa trasformazione è indotta da tossine ambientali ed alimentari, scarsa funzione immunitaria, virus, stress, squilibri ormonali e nutrizionali ed elevato stress ossidativo. In generale possiamo dividere le sostanze in grado di stimolare la trasformazione delle cellule mammarie in 2 classi:

- Estrogeni, sostanze estrogeno-simili e xenoestrogeni: gli estrogeni sono fattori di crescita per le cellule mammarie. Sebbene essi non siano responsabili del danno genetico che innesca un tumore, possono favorirne la proliferazione. Vista la ricchezza di recettori per gli estrogeni nelle cellule mammarie e la presenza massiccia di xeno-estrogeni è alta la possibilità di stimolazione delle cellule del seno.

- Agenti cancerogeni: sono agenti in grado di indurre un danno genetico che trasforma una cellula normale in una cellula cancerogena.

Le donne portatrici di mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2 hanno un rischio 4 volte più alto di sviluppare un tumore al seno.

Mettere in pratica un programma di prevenzione per il tumore al seno

Come per altri tumori, anche per il tumore del seno è possibile attuare un programma di prevenzione mirata composto da vari elementi:

1. Favorire un corretto metabolismo degli estrogeni: con estrogeni ci riferisce in realtà a 3 composti: estrone, estradiolo ed estriolo con effetti diversi di stimolazione sul tessutto mammario. L’estrone in particolare, l’ormone maggiore dopo la menopausa, ha un’azione di gran lunga più potente dell’estradiolo e dell’estriolo rispettivamente l’ormone più presente prima della menopausa e l’estrogeno della gravidanza. Inoltre gli estrogeni possono venire metabolizzati in modo diverso dando vita a metaboliti tossici e cancerogeni come il 4-OH estrone e il 16-OH estrone e metaboliti invece protettivi come il 2-OH estrone, sostanzialmente privi di attività estrogenica. Questo diverso risultato metabolico dipende da un delicato equilibrio enzimatico individuale ma può essere modificato da interventi semplici come quelli alimentari. Le verdure crucifere infatti come cavoli, cavoletti e broccoli contengono alte concentrazioni di Indole-3-Carbinolo (I3C) e Diindolilmetano (DIM) sostanze capaci di modificare l’attività di specifici citocromi (enzimi del fegato preposti a metabolizzare tossine, farmaci e sostanze endogene) e di favorire la formazione di composti protettivi come il 2-OH estrone. Per esempio la valutazione del rapporto 2/16 OH estrone con semplice esame delle urine è un indice molto utile in un programma di prevenzione per il tumore al seno. Le donne con un rapporto basso (e quindi con elevate concentrazioni di 16-OH estrone) hanno un rischio del 30% maggior di sviluppare un tumore al seno. É evidente che gli aspetti che riguardano il metabolismo degli estrogeni sono più importante della presenza degli estrogeni in quanto tali. Infatti la maggior parte dei tumori del seno si sviluppano dopo la menopausa quando i livelli complessivi di estrogeni diminuiscono ma l’equilibrio ormonale complessivo varia così come il metabolismo degli ormoni stessi. E’ importante quindi assumere tutti i giorni verdure crucifere possibilmente 2 volte al giorno.

2. Evitare la carenza di progesterone: in molte donne già subito dopo i 30 anni la produzione di progesterone cala considerevolmente. Una delle funzioni del progesterone è quella di proteggere le cellule mammarie dalla stimolazione estrogenica proteggendole quindi dal rischio tumorale. Valutare eventuali carenze di progesterone e integrarle con progesterone bioidentico (non progestinici sintetici ma progesterone con formula analoga a quella del progesterone endogeno) è importante per garantire una corretta omeostasi del tessuto mammario.

3. Determinare le predisposizioni genetiche: anche se le conoscenze genetiche attuali nel campo del tumore al seno permettono di utilizzare con certezza solo mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 che sono fattori di rischio solo nel 4% dei tumori al seno, in casi di predisposizione familiare appare sensato conoscere la presenza o meno di tali mutazioni. Questo oggi si fa con semplici esami del sangue o con un prelievo indolore di cellule della mucosa orale.

4. Fare esercizio fisico regolarmente: esercizio fisico regolare ad intensità corretta è stato messo in relazione ad una riduzione del rischio relative di tumore al seno del 30% e ad un’aumentata sopravvivenza. Inoltre l’esercizio fisico aiuta a ridurre il grasso corporeo. E’ stato visto che un eccesso di peso anche di solo 5 chili dall’età di 30 anni in poi aumenta il rischio di tumore del 25%. Il grasso, ricco dell’enzima aromatasi, contribuisce alla produzione di estrogeni.

5. Ridurre e selezionare i grassi: gli acidi grassi omega 3 contenuti in noci, pesce, semi di lino sono anti-infiammatori e anti-tumorali. Gli acidi grassi omega 6 invece contenuti in alcuni oli vegetali e in grassi animali sono pro-infiammatori e potenzialmente cancerogeni. Un’alimentazione protettiva dovrebbe dunque limitare i grassi saturi animali, le carni rosse, latte e latticini, prodotti confezionati contenenti grassi idrogenati e favorire invece il pesce, le verdure, le noci e i semi naturali.

6. Arricchire l’alimentazione con anti-ossidanti e fibra: l’eccessiva produzione di radicali liberi è una fonte di danno al DNA. Una dieta ricca di anti-ossidanti aiuta a ridurre l’impatto di queste sostanze nocive. Verdure e frutta sono ricche di fitonutrienti che assieme a vitamine come la vitamina A, E e C sono efficaci nel ridurre lo stress ossidativo. Molto utile è anche il té verde ricco di sostanze come l’Epigallocatechina 3 gallate dall’alto potere anti-ossidante. La fibra riduce l’assorbimento di sostanze tossiche e di zuccheri che stimolano la secrezione di insulina e IGF-1 e agiscono come fattori di crescita sulle cellule.

7. Evitare alcol, tabacco, pesticidi, tossine e stress: ogni fattore che ha il potenziale di danneggiare la cellula e indurre una sua proliferazione va evitato in qualsiasi programma di prevenzione tumorale.

Conclusioni

Se con le procedure di diagnosi precoce ci si illude di fare prevenzione e ci si affida in toto ad una tecnologia attribuendole capacità che essa non ha, nella prevenzione si parte sempre dallo stile di vita e da elementi basilari come la nutrizione. Esistono anche inteventi più complessi di chemio-prevenzione che possono essere indicati in casi particolari ma la prevenzione di base dovrebbe essere applicata a tutte le donne indipendentemente dalla presenza o meno di fattori di rischio.

Articolo del Dr. Filippo Ongaro edito dalla Salus Infirmorum e disponibile anche sul sito http://www.edizionisalus.it/. Il Dott. Filippo Ongaro è stato per anni medico degli astronauti presso l’Agenzia Spaziale Europea ed ha lavorato alla NASA e all’Agenzia Spaziale Russa. Oggi è Direttore Scientifico dell’Istituto di Medicina Rigenerativa e Anti-Aging di Treviso e collabora con enti di ricerca tra cui l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e l’Institute for Biomedical problems di Mosca.

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Il ruolo dei genitori nella cura della salute psichica dei bambini

Disagio psicologico e preconcetti

Succede talvolta che bambini con difficoltà relazionali o in condizioni di disagio psicologico non siano sottoposti agli opportuni trattamenti, pur disponibili e provatamente efficaci, perché i genitori “non credono nella psicologia” oppure “temono che venga cambiata la loro personalità”, oppure ancora “mio figlio non è anormale!”.
Al di là della posizione polemica su ruolo e funzione della psicologia, che dovrebbe tener conto dell’evoluzione contemporanea di questa disciplina scientifica, e, parallelamente, della maggiore “credibilità” che essa deve ancora conquistarsi presso una fetta di opinione pubblica, quello che preme agli operatori della salute mentale dei soggetti in età evolutiva è il benessere (mancato) dei minori sottratti alle legittime cure da parte di esercenti la potestà genitoriale sicuramente amorevoli, ma altrettanto sicuramente ignoranti rispetto ai problemi dei figli ed alle possibili soluzioni.

La società civile si deve dunque fare carico della promozione di una nuova cultura della salute mentale che, da una parte, possa superare la diffidenza verso discipline e prassi forse ancora non del tutto “visibili” presso taluni utenti, e dall’altra, permetta di cambiare l’atteggiamento culturale di fronte al bisogno psicologico del bambino ed ai sintomi che egli spontaneamente può manifestare (ad esempio: balbuzie, ansie e paure, condotte auto- ed etero-aggressive, disturbi alimentari, disturbi dell’apprendimento, per citarne alcuni tra i più frequenti; oppure malattie psicosomatiche in cui sia preponderante la componente psichica, quali, ad esempio, alopecia areata, cefalea muscolo-tensiva, disturbi gastrointestinali, ecc.).

Purtroppo, sussiste ancora diffidenza verso la sfera psicologica dell’individuo in quanto permane la correlazione con la “follia”, che tuttora suscita timori e meccanismi di difesa tendenti a negare l’esistenza dei problemi.
Di conseguenza, mentre nessun buon genitore si sognerebbe di non sottoporre il figlio alle cure, ad esempio, dell’ortopedico se presentasse un piedino non perfettamente in ordine, si incontrano ancora genitori che sottovalutano e negano il disagio psicologico di un bambino che presenta difficoltà che non solo “non passano da sole”, ma sono destinate a cronicizzare se non adeguatamente trattate.

Il disagio mentale in età evolutiva

La salute psichica può essere definita come quella condizione psicofisica che consente al minore di sviluppare le proprie potenzialità evolutive, ossia di crescere in una relazione con l’altro sufficientemente buona e in un ambiente idoneo.
Il termine “condizione psicofisica” mette in evidenza che l’individuo è una unità psico-somatica nella quale mente e corpo sono in collegamento dinamico e inscindibile: ne consegue che salute fisica e salute mentale sono strettamente interdipendenti, soprattutto nei primi anni di vita.
E’ opportuno ricordare che tutti i bambini fisicamente sani nascono con gli stessi “talenti” e che lo sviluppo di queste potenzialità dipende in gran parte dall’ambiente in cui vivranno.
Allo stato attuale, pertanto, occuparsi di salute mentale dell’età evolutiva significa farsi carico di rendere l’ambiente di vita del bambino quanto più possibile idoneo per il suo sviluppo.
Il disagio mentale si configura, quindi, come condizione di difficoltà e sofferenza per cui lo sviluppo psicologico dell’individuo viene ostacolato. Questo disagio è evidenziato dal bambino e dalla bambina attraverso una serie di sintomi che variano a seconda dell’età e che possono essere a carico sia del corpo che della mente.

Più il bambino è piccolo più i sintomi avranno manifestazione somatica mentre, crescendo, i sintomi coinvolgeranno preferenzialmente la sfera del pensiero.
Molto spesso, però, ciò che il bambino segnala non viene preso in considerazione, a meno che non si possa collegare ad una malattia fisica, e tutt’al più viene represso con una terapia farmacologia.
In questa operazione di negazione del sintomo psicologico sono talvolta alleati inconsapevolmente molti adulti, dai pediatra agli educatori ai genitori, come detto all’inizio, se non hanno una profonda, matura coscienza che la salute è un processo multifattoriale su tre dimensioni: fisica, psicologica e socio-relazionale.
Infatti, la percentuale dei minori che, pur avendone bisogno non arrivano alla cura dei servizi per la salute mentale (pubblici o privati) è ancora piuttosto elevata, pur essendo la consultazione psicologica un diritto del bambino del tutto analogo ad una qualsiasi altra visita medica.

Come contrastare il disagio psicologico

Il primo passo è la prevenzione e il rilevamento precoce dei disturbi.
Poiché i bambini segnalano spontaneamente il loro disagio non è utile effettuare indagini a tappeto (screening) per rilevare il disagio mentale in età evolutiva.
Tuttavia è importante per una prevenzione specifica lavorare a livello integrato sugli indicatori di rischio che possono venir rilevati dai medici di base, pediatri dei servizi consultoriali, operatori sociali e sanitari della prima infanzia, insegnanti, genitori.
Per rilevamento precoce s’intende una valutazione della sintomatologia nell’infanzia e nell’adolescenza che permetta di riconoscere precocemente i primi segni di disagio mentale, proponendo le eventuali misure terapeutiche che risolvano il problema o ne evitino la cronicizzazione.
Infatti, sia che l’intervento sia posto in essere dai servizi pubblici territoriali che da professionisti privati, gli obiettivi del trattamento sono:

- impedire che il disturbo (segnale di disagio) si strutturi e diventi più grave, non essendo i disturbi psicologici di una certa rilevanza e durata soggetti a remissione spontanea;

- coadiuvare i genitori nel processo di comprensione delle cause dei disturbi dei figli e a cercare forme diverse di rapporto (al di fuori di sensi di colpa sempre in agguato);

- modificare le patologie più strutturate;

- riabilitare competenze perdute a causa dei disturbi psicologici, ad esempio difficoltà scolastiche e blocchi nella socializzazione;

- rafforzare l’identità e l’autostima del minore per evitare il loro coinvolgimento in condotte disfunzionali.

E’ dunque necessario potenziare le iniziative per rilevare, valutare e prendersi cura precocemente del disagio mentale, tenendo conto che le indagini epidemiologiche affermano che circa il 15-20% dei minori presentano disturbi che necessitano di una valutazione, ma che solo la metà di essi accede ai trattamenti. E’ per tale ragione che vanno prese misure specifiche per cogliere, ognuno nel proprio ruolo, l’evidenza della sintomatologia presentata dal bambino e per superare le difficoltà (e le diffidenze) degli adulti nella richiesta di aiuto.

Sostegno al ruolo genitoriale

E’ di primaria importanza restituire competenza ai genitori aiutandoli a superare la resistenza ad entrare in contatto con il disagio mentale dei figli e farsene carico e la diffidenza verso gli operatori psicologico-psichiatrici, spesso vissuti come giudici del fallimento della loro funzione genitoriale piuttosto che come luoghi di aiuto.
Dobbiamo riconoscere che, purtroppo, intorno agli anni ’70 una certa corrente di pensiero tendeva ad attribuire sic et simpliciter alla famiglia, ed in primo luogo alla madre, la responsabilità di tutti i disturbi dei figli, fisici, psichici e relazionali. Si ricorderanno le cosiddette “madri schizofrenogene”, autrici determinanti della discesa dei figli verso gli inferi della schizofrenia.
Ma l’evoluzione scientifica delle discipline psicologiche e psichiatriche in questi ultimi 30-40 anni ha portato a modelli interpretativi e valutativi molto più elastici e realistici: il ruolo dell’ambiente è, evidentemente, importantissimo nella genesi del benessere o del disagio di un bambino, ma oggi si intende ricercare e potenziare le caratteristiche della famiglia, e fornire sostegno nei casi di caratteristiche disfunzionali, anziché attribuire colpe ulteriormente disgreganti il nucleo familiare.

E’ necessario, pertanto, riuscire ad entrare in comunicazione con i genitori, aiutandoli ad assumersi le proprie responsabilità genitoriali sminuendo i timori e i sensi di colpa per eventuali e inevitabili errori, eventualmente indirizzandoli verso luoghi e professionisti idonei ad occuparsi del problema.
Ciò può attuarsi attraverso itinerari educativi con i genitori, in una sorta di psico-educazione che effettivamente può costituire la strada maestra della prevenzione del disagio psicologico di bambini ed adolescenti. Essa si configura come un modo di rendere le famiglie capaci di gestire sempre più autonomamente i problemi rafforzando le loro abilità strategiche e le risorse nel rapporto con i figli.
Operando per aumentare le competenze comunicative ed educative dei genitori si opera direttamente a favore del benessere dei bambini, a condizione che:

- si superi la logica degli interventi straordinari, estemporanei, per produrre cambiamenti stabili e calati nel tessuto sociale;

- ci si integri con gli altri eventuali progetti di intervento portati avanti dai vari attori sociali, per superare il rischio della frammentarietà e della sovrapposizione;

- si progettino i propri interventi in una logica circolare, in cui i genitori siano coinvolti nella progettazione e non restino i meri destinatari dell’intervento.

Conclusioni

Dopo molti anni in cui i genitori sono stati considerati la causa diretta dei disturbi psicologici dei propri figli ed esclusi da setting e progetti terapeutici, oggi i genitori vengono considerati una risorsa nel recupero della salute psichica dei bambini ed integrati nei processi di riabilitazione/terapia.
Ciò significa che essi stessi sono attori partecipi e consapevoli dei cambiamenti cui il bambino deve dar luogo per (ri)stabilire un livello adeguato di benessere e, come tali, mamme e papà sono ormai chiamati a prender parte, in varie forme, agli interventi sui disturbi psicologici dei bambini.
Ma per arrivare a questo punto di forza del trattamento, occorre che, in primo luogo, i genitori riescano ad entrare in contatto con il disagio psicologico del figlio senza sentirsi colpevoli, senza nascondere la testa sotto la sabbia per non sentire il dolore di presunti fallimenti e la vergogna per ipotetici errori.
Fare il genitore è, vox populi, il mestiere più difficile del mondo, non sono previste scuole né tirocini, eppure è la chiave di volta dell’architettura sociale e del benessere individuale.
Facciamo in modo che l’amore che proviamo per i nostri figli non accechi la nostra lucidità: se ci rendiamo conto di problemi che con il tempo (una ragionevole, ma limitata, quantità di tempo) non passano, anzi si aggravano, chiediamo aiuto. Questo non segnerà la nostra debolezza, bensì la nostra forza di guardare in faccia la realtà senza timori.


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