google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0 SALUTIAMOCI google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0

Chemioterapia: alternativa con gli Antiacidi, Buoni risultati

Sembra troppo semplice per essere vero, eppure in un futuro non troppo lontano potrebbe diventare la nuova terapia alternativa alla chemioterapia: i farmaci antiacidità, gli inibitori della pompa protonica e persino il bicarbonato sono il nuovo filone cui si stanno dedicando diversi scienziati, perchè efficaci, senza effetti collaterali e con costi molti più bassi. A fare il punto della situazione sono stati gli scienziati riunitisi oggi all'Istituto superiore di sanità (Iss), in occasione del primo simposio dell'International society for proton dynamics in cancer (Ispdc). Questa nuova terapia si basa su un approccio diverso da quello adoperato finora, perchè parte dall'assunto che i tumori sono acidi. «L'acidità è un meccanismo che il cancro usa per isolarsi da tutto il resto, farmaci compresi - spiega Stefano Fais, presidente Ispdc e membro del dipartimento del farmaco dell'Iss - Ma le cellule tumorali, per difendersi a loro volta da questo ambiente acido, fanno iperfunzionare le pompe protoniche che pompano protoni H+. Se si bloccano queste pompe, la cellula tumorale rimane disarmata di fronte all'acidità, e finisce per morire autodigerendosi». Usando quindi degli antiacidi, anche generici, come gli inibitori della pompa protonica, generalmente adoperati per le ulcere gastriche si può curare il cancro.

"ECONOMICI E NO EFFETTI COLLATERALI" «A differenza dei chemioterapici - continua Fais - questi farmaci non hanno effetti collaterali e hanno dei costi molto più bassi. Basti pensare che quelli usati con la target therapy, che provocano tossicità e resistenza nel paziente, costano 50-60mila euro l'anno a malato. Con questa terapia invece il costo annuale sarebbe di circa 600 euro con il generico, e di 1200 con quelli di marca. Ma le industrie farmaceutiche al momento non sono molto interessate a questo tipo di approccio». Nonostante ciò, l'Iss è riuscito a far partire i primi due trial clinici del genere in Italia: uno presso l'Istituto dei tumori di Milano per il melanoma su circa 30 pazienti, e l'altro presso l'università di Siena per l'osteosarcoma su 80 pazienti. «I risultati sono molto incoraggianti - prosegue Fais - perché‚ questi farmaci, associati ai chemioterapici, hanno migliorato la risposta del paziente alla terapia, anche nei casi in cui non funzionava più, o di metastasi o recidive. Ma i dati devono essere confermati su un numero più ampio di pazienti e serve il supporto delle case farmaceutiche». Lo stesso approccio è stato utilizzato anche presso la Fudan University di Shangai per il cancro al seno, mentre al Cancer Center di Tampa in Florida si sta sperimentando l'impiego del bicarbonato assunto per bocca. A Tokyo invece l'università di Edobashi sta studiando sui sarcomi una vecchia molecola, l'arancio di acridina, che si concentra negli organuli acidi della cellula e dopo uno stimolo luminoso ai raggi X si trasforma in un composto altamente tossico per le cellule tumorali. «Ma la vera svolta - conclude Fais - sarà se avremo l'approvazione per uno studio clinico in cui useremo solo gli inibitori della pompa protonica, senza chemioterapici. Così dimostreremo la loro efficacia e la possibilità di usarli come alternativa alla chemioterapia».
 

L'infarto è più letale per le donne

Il cuore 'tradiscè le donne più degli uomini. E, complessivamente, l'infarto ne uccide di più, anche se è ancora radicata la convinzione che si tratti di un rischio al maschile. Ma se ciò è vero in età fertile, grazie alla protezione degli estrogeni, con la menopausa - quando aumenta il colesterolo 'cattivò (Ldl) e diminuisce quello 'buonò (Hdl), mentre aumentano peso, ipertensione arteriosa e rischio di sviluppare il diabete - i nuovi casi di infarto e ictus cerebrale nelle donne aumentano progressivamente, fino a raggiungere, e intorno ai 75 anni superare, quelli maschili. A sfatare il pregiudizio, sempre più incrinato dai dati epidemiologici, sono gli esperti Servizio di prevenzione e protezione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Spp-Cnr) e della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec), che hanno messo a punto un vademecum ad hoc per 'proteggere il cuore delle donnè, visto che la prevenzione 'in rosà resta ancora molto scarsa. «Gli ultimi dati Istat confermano che le malattie cardiovascolari rappresentano ben il 44% delle cause di morti femminili, contro il 33% negli uomini», spiega Roberto Volpe, ricercatore del Spp-Cnr. «Eppure, sebbene siano oltre 120.000 le donne italiane che muoiono ogni anno per tali patologie, queste sono ancora considerate tipiche del sesso maschile». Da qui l'idea del vademecum dedicato alla 'Prevenzione dell'infarto del miocardio nella donnà. «Il documento intende fornire al pubblico e agli operatori sanitari uno strumento completo e pratico e la prevenzione è un obiettivo spesso raggiungibile, poichè la corretta informazione è la base della prevenzione», aggiunge Maria Grazia Modena, direttore di Cardiologia all'università di Modena-Reggio Emilia e past-president della Società italiana di cardiologia. «Un dato allarmante in tal senso è che le donne colpite da infarto acuto hanno una maggiore mortalità poichè, per via di una sottostima del loro rischio da parte dei medici curanti, ricevono un minor numero di indagini diagnostiche come la coronarografia e vengono trattate meno con farmaci fondamentali per prevenire le recidive come l'aspirina, i betabloccanti e le statine. Senza dimenticare che esistono malattie cardiovascolari tipiche delle donne, come la dissecazione spontanea delle coronarie e delle carotidi», ricorda l'esperta. «Le donne sono poi svantaggiate nella tutela della loro salute - afferma Massimo Volpe, presidente della Siprec e direttore di Cardiologia al Policlinico Sant'Andrea-Università 'La Sapienzà di Roma - per alcuni fattori sociali, culturali e caratteriali quali: il doppio lavoro domestico e fuori casa, la propensione a occuparsi prima dei problemi altrui che dei propri, un interesse prevalentemente orientato alla cura degli aspetti riproduttivi, la limitata partecipazione agli studi clinici sui nuovi farmaci, in cui se le donne non sono più escluse come poteva avvenire nelle sperimentazioni condotte negli anni '70-'80, ancora oggi difficilmente rappresentano il 50% delle casistiche ».

Il documento, oltre a ribadire l'importanza di un corretto stile di vita e di una terapia farmacologica mirata in caso di presenza di fattori di rischio cardiovascolare come ipertensione arteriosa, diabete e ipercolesterolemia, fornisce indicazioni su patologie specifiche da menopausa come le malattie autoimmuni, endocrinologiche o l'ipercolesterolemia. «Per quest'ultima una dieta alimentare a basso contenuto di grassi deve però tenere in conto il fabbisogno di calcio, fondamentale contro l'osteoporosi - sottolinea Roberto Volpe. »L'assunzione di alimenti a ridotto contenuto lipidico ma ad adeguato tenore di calcio, un appropriato apporto di vitamina D e una regolare attività fisica possono permettere di prevenire sia le malattie cardiovascolari che l'osteoporosi«, conclude lo specialista

La crisi di mezza età inizia dai 30 anni

La crisi di mezza età? Accelera il passo e anticipa i tempi. A sorpresa si fa largo già a 30 anni, causata da pressioni sul lavoro, ammesso che ce ne sia uno, e da relazioni che iniziano a 'scricchiolarè presto rivelandosi sempre meno longeve. Un sondaggio targato 'Relatè e condotto in Inghilterra ha infatti rilevato come la fascia d'età più smarrita sia quella che va dai 35 ai 44 anni. Così, se un tempo la crisi di mezza età era considerata un infausto patrimonio dei 50enni, oggi i 30enni sembrano appropriarsene e farla loro. A metterli in crisi, spiega il sondaggio, il desiderio di rapporti migliori in famiglia (22%) e più veri con gli amici (22%), un tradimento in amore (40%) o una relazione finita male con straschichi che hanno aperto la strada al mal di vivere (22%). Emerge, inoltre, la percezione di un tempo che viene vissuto non come si vorrebbe, mentre la giovinezza sembra scivolare via. Il 25%, infatti, vorrebbe avere più tempo da dedicare alla famiglia o agli amici (23%), e il 30% crede che ridurre l'orario in ufficio avrebbe effetti positivi sulle proprie relazioni familiari. Il 21% non nasconde di sentirsi solo. Il lavoro appare come una delle noti più dolenti, con il 28% costretto addirittura a lasciarne uno a causa di cattivi rapporti con colleghi. La fotografia scattata dal sondaggio mostra 30enni che annaspano sempre più, alle prese con lavori che assorbono troppo tempo e rapporti sempre più malconci. Tant'è che sono in molti ad ammettere di usare Facebook e altri social network per avere una possibilità in più per avere contatti con i propri figli. «Tradizionalmente - sottolinea Claire Tyler, chief executive di Relate - la crisi di mezza età si associa ai 50 anni o tutt'al più alla fine dei 40. Ma il Rapporto rileva che questo periodo di smarrimento sembra investire le persone molto prima di quanto ci si aspetterebbe. Del resto - fa notare - è questa la fase in cui si hanno le più alte aspettative, e si cominciano a tirare le somme sulla propria carriera e vita familiare». Cary Cooper, un ricercatore dell'ateneo di Lancaster impegnato a studiare lo stress legato al mondo del lavoro, ammette che le cose sembrerebbero destinate a peggiorare ulteriormente, a causa della difficile congiuntura economica che stiamo vivendo. E invita a non sottovalutare le conseguenze di questa infelicità diffusa. «I costi annuali dei problemi mentali legati al lavoro - avverte - sono stimati in 28 miliardi di sterline. È un problema enorme».

Un Pacemaker nel cervello attenua i sintomi del Parkinson

Gli arti tornano ad essere meno rigidi, il linguaggio più fluido e il tremore sembra essere scomparso. Sono gli effetti che si registrano su un malato di Parkinson sottoposto ad una stimolazione cerebrale profonda o DBS (Deep Brain Stimolation). Da quel momento, i sintomi della malattia vengono abbattuti del 60% ma per la tipologia di intervento cui è stato sottoposto, il paziente dovrà convivere con dei microelettrodi impiantati nel cervello e una centralina sottocutanea sul torace, che ricorda un pacemaker. Lucilla Bossi era una ballerina della Scala quando, a 36 anni, riconobbe i primi sintomi del morbo di Parkinson. Dopo 12 anni di malattia si è sottoposta alla DBS e ha racconta la sua esperienza in molti consessi sull'argomento, tra cui, recentemente ad un workshop internazionale a Varsavia, dove si sono incontrati medici e pazienti. «In questa malattia c'è un insieme di sintomi - racconta l'ex ballerina - che aggredisce la capacità di comunicare: il venir meno dei movimenti spontanei e automatici nei quali si esprime il linguaggio del corpo, l'affievolirsi della voce e il suo farsi completamente priva di inflessioni e incapace di prosodia, l'eloquio che si fa confuso e spesso indecifrabile, il viso trasformato dalla rigidità muscolare in una maschera inespressiva». A sottoporsi alla stimolazione cerebrale profonda sono i pazienti sui quali la terapia farmacologica non dà risultati o comporta effetti collaterali pesanti. Si tratta di «una fetta ristretta della popolazione dei malati di Parkinson - precisa all'ANSA Francesco Saverio Pastore, responsabile della U.O.S. di Neurochirurgia Stereotassica e Funzionale dell'università Tor Vergata di Roma, dove si eseguono questi interventi - che l'intervento non guarisce ma che certamente ricava un forte guadagno in termini di qualita» della vita«.

OPERAZIONE MOLTO INVASIVA L'operazione è piuttosto invasiva. Viene praticato un foro nel cranio, attraverso il quale passano dei microelettrodi e con un sistema di coordinate in 3 dimensioni vengono guidati fino al posizionamento nel sub-talamo sinistro e nel sub-talamo destro, »disturbando un circuito patologico che si è creato a determinate frequenze«, causa dei sintomi del Parkinson. A controllare i microelettrodi ci pensa una centralina miniaturizzata impiantata sotto pelle nel torace e le cui batterie hanno un'autonomia di 8-9 anni. Una centralina esterna, poi, controlla lo stimolatore sottocutaneo. I pazienti che convivono con questa sorta di pacemaker nel cervello riescono ad abbassare significativamente la quantità di farmaci, anche se, in base ad alcuni studi randomizzati condotti a 5 anni dall'operazione, con il passare degli anni, gli effetti si attenuano e ritornano i sintomi della malattia. La DBS, negli ultimi anni è stata applicata con successo anche nel trattamento della sindrome di Tourette, nell'epilessia, nella depressione e in alcuni casi di distonia ma Pastore invita alla prudenza sulla diffusione estrema di questa terapia che, in alcune sperimentazioni condotte in Canada e riportate dalla letteratura scientifica ha mostrato risultati sorprendenti sul miglioramento delle capacità mnemoniche. »Sono certo che il futuro della cura del Parkinson passerà attraverso la terapia farmacologica o le cellule staminali - conclude - ma non è allettante un preoccupante ritorno alla psicochirurgia«.

La Sclerosi Multipla colpisce nei bimbi le Funzioni Cognitive

Nella sclerosi multipla infantile le funzioni cognitive sono più colpite di quelle motorie. I bimbi che ne sono affetti hanno quindi maggiori probabilità di avere basso quoziente intellettivo, problemi di memoria, di attenzione e di altre funzioni cognitive come il linguaggio. Sono le conclusioni di uno studio italiano, coordinato da un gruppo di ricerca dell'Università di Firenze, pubblicato sulla rivista Neurology. Lo rende noto l'Ateneo fiorentino. La ricerca è stata condotta dal team di Maria Pia Amato, professore associato di neurologia a Firenze e responsabile del settore sclerosi multipla della Sod neurologia I dell'Aou Careggi di Firenze, che ha coordinato 11 centri per la sclerosi multipla in Italia. Lo studio fa seguito ad una pubblicazione di due anni fa che evidenziava un aspetto finora non conosciuto della sclerosi multipla infantile, la capacità di colpire oltre alle funzioni motorie anche le funzioni intellettive, tra cui il linguaggio, in genere risparmiato nell'adulto. Ora lo stesso gruppo di ricercatori pubblica il risultato del controllo a due anni di distanza: 63 bambini e adolescenti con sclerosi multipla sono stati confrontati con 50 coetanei sani e il paragone ha messo in evidenza una dissociazione tra la progressione della disabilità fisica, che è stata minima nei 2 anni, e l'incremento della disabilità cognitiva, che ha invece coinvolto il 75% dei pazienti. «Siamo abituati a pensare - afferma Amato - che, nell'età evolutiva, la plasticità cerebrale e le capacità di recupero siano più efficienti rispetto all'età adulta. Lo studio suggerisce invece che la plasticità di un sistema nervoso in fase di sviluppo possa non essere sufficiente a compensare il danno anatomico prodotto dalla malattia».

Alcool in gravidanza, meglio evitare

Da tempo si dibatte sull’opportunità o meno di assumere, anche in piccole dosi, alcool in gravidanza. In assenza di una risposta certa, si consiglia l’astinenza totale. Ecco perché.
Il vecchio credo “ il vino fa sangue” usato dalle nostre nonne è ormai assodato sia un lungo comune tanto più pericoloso se adoperato in gravidanza.

La mamma ed il suo bambino durante la gravidanza sono in simbiosi perfetta e se il piccolo risente degli stati d’animo figuriamoci se il campo si restringe a semplici interazioni di tipo biochimico.
Se la madre assume alcool anche il feto lo assume, con la semplice differenza che mentre un fegato maturo impiega qualche ora a smaltire le tossine dell’alcool, un fegato in formazione ci impiega diverso giorni con conseguenze irreversibili anche a livello neurologico nonché con la reale e concreta possibilità di ulteriori danni futuri a livello psicomotorio e di apprendimento.

I ricercatori hanno fissato la soglia minima di 20 grammi di alcool al giorno (circa due bicchieri di vino) per superare la soglia si sicurezza per l’insorgere della sindrome fetale alcolica ( FAS, Fetal alcol sindrome) ma non essendoci studi che assicurino che piccole dosi di alcol siano sicure per il regolare sviluppo del feto, il credo per un mamma in attesa è e deve restare quello dell’assoluta astinenza dall’ingerire qualsiasi bevanda che presenti un gradazione alcolica.

La FAS è legata essenzialmente al forte potere teratogeno dell’alcool etilico che è inoltre tossico per la placenta ove procura una drastica riduzione del suo potere nutritivo verso il feto.

Le conseguenze della FAS possono essere distinte in tre grossi gruppi:

- Difetti di crescita: i bambini di mamme bevitrici presentano peso, lunghezza e circonferenze craniche al di sotto del 10 percentile, e se il peso può migliorare resta invece invariato il difetto di crescita generale.

- Anomalie morfologiche: fronte bassa, orecchie ruotate all’indietro, alterato sviluppo delle ossa nasali, labbro superiore sottile fino ad arrivare anche malformazioni cardiache.

- Compromissione del sistema nervoso centrale: i bambini affetti da FAS presentano ritardo mentale, difetto di attenzione, iperattività, ritardo motorio e quoziente di intelligenza che si colloca nella bordline.

Sono troppi dunque i rischi a cui va incontro il nostro piccolo per il suo futuro sviluppo in confronto al piacere di un buon bicchiere di vino o di birra; ribadendo, ancora una volta, l’importanza di non bere resta comunque un piccolo trucco per sapere quanti grammi di alcool ingeriamo, ovvero “la regola dei 10 grammi”, ossia la quantità contenuta in:

- Un bicchiere ( 100 cc) da tavola di vino a 12°;

- Un bicchiere di un quarto di birra a 5° ;

- Un bicchierino di liquore da 30 cc;

Ricordate che lo soglia di massimo pericolo è pari a 20 grammi.

Imma Manna

di Giaden Cosmetici srl