google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0 SALUTIAMOCI google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0

La Depressione e il dolore di vivere

La depressione è una malattia che condiziona fortemente la vita delle persone che ne soffrono, le loro relazioni interpersonali, il loro rendimento sul lavoro o sullo studio e il piacere di curare la propria persona o di godere appieno del tempo libero.
Il disturbo depressivo può colpire chiunque a qualunque età, ma è più frequente tra i 25 e i 44 anni di età ed più comune nelle donne adolescenti e adulte.
Può iniziare dopo un particolare periodo di stress, come ad esempio la morte di una persona cara, la perdita del lavoro.
Chi soffre di depressione si sente sempre giù, con umore e pensieri sempre negativi. Sembra che presentino un vero e proprio dolore di vivere, che li porta non riuscire a godersi più nulla.

Oltre a questi sintomi primari, le persone che soffrono di questo disturbo ne presentano altri, come:

- mancanza di energie, affaticamento, stanchezza;

- aumento o diminuzione significative dell'appetito e quindi del peso corporeo;

- disturbi del sonno (dorme di più o di meno o si sveglia spesso durante la notte);

- rallentamento o agitazione;

- difficoltà a concentrarsi;

- sensazione di essere inutile, negativo o continuamente colpevole;

- pensieri di morte o di suicidio.

Chi soffre di depressione può soffrirne in modo acuto, presentando delle fasi di depressione violente ed improvvise, che magari tendono a scomparire da sole o con una terapia, oppure soffrirne costantemente, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.

Spesso le persone che stanno vicino a chi ne soffre, lo invitano a reagire, a sforzarsi.
Questo comportamento induce la persona depressa ancora di più a colpevolizzarsi.
L’atteggiamento migliore da tenere è quello di aiutare gradatamente chi ne soffre a riprendere le proprie attività, assumere un'adeguata terapia farmacologica ed intraprendere una psicoterapia cognitivo comportamentale: solo la combinazione di tutto ciò può portare il depresso sulla via della guarigione e ridurre il rischio, abbastanza elevato, di ricadute.

Pubblicato da: Imma Manna

di Giaden Cosmetici srl

L'attività medica condizionata dalla paura dei tribunali

Camici bianchi troppo zelanti nelle prescrizioni di farmaci, visite specialistiche e, addirittura, ricoveri (la cosiddetta medicina difensiva positiva); oppure pronti a lavarsene le mani, evitando pazienti e procedure difficili (medicina difensiva negativa).

Sono i due 'sintomi' di una vera e propria 'patologia' che colpisce i medici e che scaturisce dalla paura delle sempre più numerose cause legali, circa 30mila all'anno, intentate contro di loro dai pazienti per 'malpractice'.

LA PAURA SOTTO IL CAMICE. Ad ammetterlo sono gli stessi camici bianchi: l'87.6 per cento di quelli romani confessa, infatti, di sentirsi, oggi, più esposto a denunce da parte dei propri assistiti. E' quanto emerge dallo studio, realizzato dall’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, "La medicina difensiva in Italia in un quadro comparato: problemi, evidenze e conseguenze", condotto dal professore Aldo Piperno, ordinario di Scienze dell'Organizzazione dell'Università Federico II di Napoli, su un campione di 800 medici. Incide e non poco anche la percezione dell’errore medico da parte della popolazione. Un'indagine europea del 2006 rivela proprio come l'Italia sia al primo posto della graduatoria: per il 97 per cento degli italiani quella degli errori medici è una questione importante. Non solo: anche la percentuale dei preoccupati (64 per cento) è superiore alla media (del 40 per cento) degli altri paesi.

LE DIAGNOSI. Ed ecco che sono sempre meno i medici capitolini che dichiarano di non fare diagnosi di tipo difensivo e di non farsi vincere dalla paura delle denunce. Per l'esattezza, il 39.3 non eccede nelle prescrizioni di ricette farmaceutiche, il 14.3 di visite specialistiche, il 27.1 di analisi in laboratorio e il 42 di ricoveri. Così, il 59.7 per cento prescrive più ricette farmaceutiche, l'89.3 più accertamenti diagnostici, il 72.9 più analisi di laboratorio e il 58.1 più ricoveri.

DA 12 A 20 MILIARDI DI SPESA. La pratica della medicina difensiva comporta ripercussioni economiche sull'intero Sistema sanitario nazionale con una spesa tra i 12 e i 20 miliardi di euro all'anno: "I costi stimati - spiega Piperno - oscillano dai 12.3 (ipotesi minima) ai 19.5 (ipotesi massima) miliardi di euro". Un dato su tutti quello fornito dall'Associazione nazionale imprese assicurative (Ania): le denunce dei pazienti sono passate da circa 17 mila, nel '96, a 28 mila, nel 2006.

Ma basta solo guardare le percentuali di farmaci prescritti dai medici 'sulla difensiva': dallo studio del Lazio emerge come, tra le prescrizioni farmaceutiche, in testa ci siano quelle per l'apparato cardio-circolatorio (il 33.8 per cento), seguite dai farmaci per l'apparato digerente (28.3) e da quelli per l'apparato respiratorio (27.9). Non c'è dubbio che "le condizioni in cui operano oggi i medici non sono di serenità - sottolinea Mario Falconi, presidente dell'Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e odontoiatri - e questa ricerca evidenzia proprio quanto oggi i camici bianchi vivano con disagio e paura la professione. C’è solo una terapia d’urto per affrontare il problema: puntare su meritocrazia e formazione". "Ma sarebbe importante, ed è quello a cui noi puntiamo, - conclude - poter disporre di un'Authority sulla tutela della salute, un organismo terzo, snello e di rapida decisione in grado di valutare chi si muove nel settore, inclusi i pazienti, e a cui potersi rivolgere".

SONNI AGITATI. Lo spettro del tribunale, insomma, non fa dormire sonni tranquilli ai camici bianchi. E il comportamento diagnostico difensivo che ne deriva, nel 54.2 per cento dei casi è influenzato proprio dalle iniziative della magistratura. Anche se il 74 per cento dei medici romani ammette di essere condizionato dal nuovo clima dell’opinione pubblica e dei media nei confronti della categoria. Ma la pratica della medicina difensiva deriva pure dall'influenza dell’esperienza di colleghi (lo ammette il 56.2 del campione) o dalla paura di valutazioni negative sul luogo di lavoro (la pensa così il 36.6 per cento dei medici). D'altronde solo il 6.7 per cento dei professionisti della Capitale esclude la possibilità di incorrere in un esposto o denuncia da parte dei pazienti, mentre per il 68.9 c'è una probabilità di rischio fino al 30 per cento, per il 15.1 tra il 31 e il 50 per cento e per il 9.3 addirittura oltre il 50 per cento.

Pubblicato da: Pier Giuseppe Nanni

di Nanni Editore

Anestesia epidurale per il Parto indolore

Il desiderio della donna di poter vivere il travaglio del parto come un evento sereno e non traumatico ha contribuito alla diffusione ed all’applicazione delle tecniche di analgesia di parto.

Durante i nove mesi della gestazione, la futura mamma si pone la domanda se sia giusto ricorrere all’analgesia epidurale oppure se si debba partorire naturalmente senza aiuti. E molto spesso non ha a disposizione tutte le informazioni necessarie per fare una scelta serena non sapendo, sovente, neppure in cosa consiste di preciso questo tipo di anestesia.

Per anestesia epidurale ci si riferisce a un’iniezione di farmaci anestetici, effettuata da un'anestesista, nella parte bassa della schiena, tra l'osso vertebrale e la membrana che ricopre il midollo spinale, la cosidetta "dura madre".

Posto che il dolore del parto supera, come intensità, perfino quello dovuto a frattura e a tumore, esistono comunque dei fattori che condizionano la percezione del dolore:

- peso ed età della partoriente

- dimensioni e presentazione del bambino;

- durata, intensità e frequenza delle contrazioni;

- primo parto.

E L’epidurale eliminerà solamente la componente dolorosa della “contrazione” ma non la contrazione stessa. La forza espulsiva, rimanendo inalterata, permette un parto del tutto naturale ma sereno; il benessere della madre si trasmette al figlio, riducendo significativamente le complicazioni legate al parto.

A questo punto ci si potrebbe chiedere perchè non tutte le donne optano per l'analgesia epidurale.

A parte le donne che desiderano vivere intensamente il parto e preferiscono non avere alcun aiuto, ci sono altri fattori che incidono sulla scelta o meno dell'epidurale.

Innanzitutto bisogna tener presente che non tutti gli ospedali offrono questo tipo di aiuto alla futura mamma; l’anestesista non è poi a disposizione 24 su 24; in alcune strutture il ricorso all’epidurale è a pagamento e va concordato in anticipo.

Inoltre va tenuto presente che come tutti gli interventi medici, anche questa forma di analgesia può avere controindicazioni. Non viene quindi praticata a donne affette da disturbi della coagulazione del sangue e che hanno assunto farmaci anticoagulanti, da chi ha infezioni localizzate nella regione della schiena o patologie della colonna vertebrale o ancora da rare patologie muscolari.

Normalmente non ci sono effetti collaterali:gli inconvenienti sono trascurabili ma una minima percentuale di donne può andare incontro a forte mal di testa per due o tre giorni dopo il parto.
In casi rari è possibile l’accidentale iniezione di farmaci non nello spazio epidurale, come previsto, bensì nel canale spinale. Ciò porta problemi alla respirazione spontanea.
Se eseguita correttamente però ha molti vantaggi: innanzitutto il sollievo del dolore è efficace fin dalle prime fasi del travaglio, riduce il consumo di ossigeno materno, protegge gli scambi placentari tra madre e figlio.

Da segnalare, in conclusione, che una maggiore attenzione al dolore del travaglio favorisce in modo determinante l’evolversi della medicina perinatale.

Pubblicato da: Imma Manna

di Giaden Cosmetici srl

Candida Albicans: guarirne e ridurne gli episodi di recidiva

Quasi il 75% delle donne ha avuto o avrà nel corso della propria vita almeno un episodio di micosi vulvovaginale, causata nel 90% dei casi da un fungo denominato Candida Albicans.

La Candida è normalmente presente nella vagina insieme ad altri batteri, che formano l’ecosistema vaginale. Sono state individuate alcune condizioni predisponenti che, alterando questo ecosistema, consentono il suo sviluppo e la comparsa dei sintomi tipici dell'infezione. La gravidanza è una di queste condizioni: molte donne proprio durante la gestazione (il pH aumenta) hanno un primo episodio o una recidiva. Altre condizioni sono tutte quelle dove c'è una compromissione delle difese immunitarie come gli stati di immunodeficienza congenita od acquisita ed il Diabete. Anche l'uso di alcuni farmaci come cortisone o antibiotici (alterano direttamente la flora batterica vaginale) può determinare l'insorgenza di una vulvo-vaginite da Candida. Una particolare frequenza di infezione è stata riscontrata nelle utilizzatrici di contraccettivi orali (favorirebbero una maggiore adesività del fungo alla parete delle cellule), nelle donne obese ed in quelle che solitamente indossano pantaloni molto aderenti.

Il sintomo tipico della Candida è un prurito irrefrenabile che induce a grattarsi frequentemente. Spesso al prurito si accompagna una perdita bianca, la cosidetta "ricotta", a volta così abbondante da prendere un riflesso verdastro. Talvolta è presente anche bruciore durante la minzione come conseguenza dell'irritazione vulvare e di una eventuale contaminazione uretrale.

All'esterno della vagina si possono avere sulla cute delle macchie rosse che si estendono dalla zona inguinale alle cosce, alle natiche, alla base della schiena.

La terapia si basa nella gran parte dei casi sull’uso di farmaci antifungini per via topica (locale) sotto forma di ovuli e lavande. L'econazolo, il ketogonazolo, il fluconazolo e l’itraconazolo sono i farmaci maggiormente usati in caso di candida.
L’utilizzo di questi farmaci deve sempre essere valutato dal proprio medico curante o dallo specialista ginecologo.

Bisogna aggiungere che il trattamento di un eventuale partner maschile è raccomandato solo quando quest'ultimo presenta una balanite (infezione del pene) sintomatica. Nei periodi di terapia è bene astenersi dai rapporti sessuali.
Per ridurre il rischio di insorgenza del fenomeno Candida o per evitare che essa si ripresenti, è bene curare l'alimentazione, limitando i dolci e mangiando frutta, verdura, yogurt e fermenti lattici.

- Non bisogna usare indumenti sintetici, non va usata la microfibra per gli slip perché aderisce eccessivamente e alza la temperatura.

- Non bisogna indossare pantaloni aderenti.

- Non bisogna detergersi troppo energicamente nelle parti intime ed prestare attenzione a che la zona anale e quella vaginale siano lavate separatamente.

C'è da dire comunque che vi sono donne che soffrono di candidiasi tutti i mesi e che riuscire a limitare i momenti acuti a due o tre l'anno, facilmente controllabili con la terapia locale, viene già considerato un discreto successo.

Pubblicato da: Imma Manna

di Giaden Cosmetici srl

Libri Consigliati:

- Guarire le Infezioni da Candida di Pignatta Valerio Ordina su Librisalus.it

Depressione post-partum: è un errore non chiedere aiuto

Una solitudine indotta, per pudore, paura, timore del giudizio. Un’angoscia consumata in silenziosa segretezza, giorno per giorno, senza vie d’uscita apparenti, a tu per tu con un esserino indifeso, totalmente dipendente da una mamma che si sentiva inadeguata e infelice.

La signora Luisa (nome di fantasia) di Milano, racconta così il decorso post partum della sua prima maternità otto anni fa, pure desiderata e cercata per mesi in armonia con suo marito. Il buio è arrivato un giorno, alla 29esina settimana di gestazione, quando si conclama il rischio di un parto prematuro: "E’ stata credo la scintilla che ha innescato la mia profonda angoscia e infelicità- spiega Luisa-. Mio figlio è nato prematuro alla 33sima settimana. Ma i problemi sono continuati: ad un mese dalla nascita ha subìto un piccolo intervento per piccole complicazioni all’apparato digerente. Ma io da dopo il parto non ero già più la stessa".

Come potrebbe descrivere il suo stato di allora?

"Mi sentivo gravata da una responsabilità insostenibile, per la quale non mi sentivo preparata. E seppure amavamo molto il piccolo e mi inteneriva averlo accanto, ne sentivo tuttavia il peso. Era un conflitto che mi divorava. Il pensiero di dover trascorrere la giornata accudendo mio figlio, mi provocava un senso di profonda angoscia, insoddisfazione e senso di inadeguatezza. Ero infelice, e confesso di aver pensato “Ma chi me l’ha fatto fare, stavo meglio prima".

Non aveva, da parte della sua famiglia, un sostegno durante la giornata?

"Purtroppo no. All’epoca avevo già perso mia madre, e mio marito aveva preso tutti i permessi possibili per starmi accanto e darmi una mano. Ero sola, e questo mi atterriva. Avrei voluto staccare ogni tanto, avere piccoli ritagli di tempo per me. Mi sentivo un leone in gabbia. Se solo avessi chiesto una mano a mia suocera, forse le cose si sarebbero risolte più velocemente…ma non lo feci".

Questa condizione psicologica, le ha mai trasmesso il timore di poter far del male a suo figlio?

"No, mai. Malgrado tutto non ho mai avuto la sensazione che avrei potuto perdere la testa e fare del male al piccolo. Il mio senso di responsabilità me lo impediva. Per questo, ora posso dire che la mia è stata forse una depressione leggera. Certamente mi sentivo in colpa di non poter godere, come avevo immaginato e sperato prima di rimanere incinta, di quei momenti speciali che sono unici nella vita di una donna. Ero consapevole di perdere qualcosa che non avrei mai potuto più recuperare. Ma ero incapace di impedirlo…"

Parlò del suo stato a suo marito?

"No, gli nascosi la vera natura di quella che lui interpretava come grande stanchezza fisica, nonostante la sua comprensione e attenzione..."

Perché non gli disse nulla?

"Allora non me ne rendevo conto, ma oggi posso dire che con ogni probabilità avevo timore che potesse male interpretare, che mi giudicasse una madre snaturata. Mi addolorava il pensiero che potesse accorgersi che non ero una neomamma radiosa e soddisfatta".

Ma con qualcuno ebbe il coraggio di confidarsi?

"Solo in parte. Parlai con un’amica, ma non sbandierai che mi sentivo depressa. Le persone che con le quali avevo contatti, scambiavano il mio stato per normale stanchezza e disorientamento, dovuto alla rivoluzione che provoca l’arrivo di un bambino".

Per quanto tempo perdurò la sua depressione?

"Per circa un anno. Quando potei ritornare al mio lavoro, alla mia vita, tutto riprese il suo corso normale. E ne uscii".

Come mai, non ebbe l’istinto di chiedere aiuto ad un medico?

"Per lo stesso motivo che mi impediva di confessarlo a mio marito. Pudore, vergogna, e la sensazione che tutto sommato ce l’avrei fatta da sola. A posteriori, però, posso dire che fu un grave errore. Parlarne è di fondamentale importanza per avere l’esatta dimensione che non si è sole, che è una patologia diffusa e che esistono metodi efficaci per curarsi. Dell'incidenza della malattia, mi sono accorta da quando frequento il forum NoiMamme, uno spazio virtuale dove tante donne e madri si incontrano e si confrontano: sono tantissime quelle che ne parlano solo in questo spazio visrtuale, perchè mascherate dall'anonimato".

Che cosa è accaduto in seguito?

"Dopo circa tre anni ho deciso di avere un altro figlio. Non lo feci a cuor leggero, lo ammetto, ma volevo ritentare per cercare di recuperare le emozioni e le gioie che avevo perduto con il mio figlio. Per fortuna, tutto è andato bene e oggi posso dire di essere serena. Ma a tutte le neo mamme dico, non aspettate a chiedere aiuto se qualcosa in voi si oscura. Farete il vostro bene e quello del vostro piccolo".

Pubblicato da: Pier Giuseppe Nanni

di Nanni Editore

La tossicità può essere anche in casa nostra

Purtroppo, al giorno d’oggi, capita spesso di venire a conoscenza di innumerevoli contraffazioni e sofisticazioni alimentari che, ovviamente, provocano grande sgomento nell’opinione pubblica.

I rischi per la salute sono realmente gravi. Giustamente, gli organi preposti pongono particolare attenzione a ciò che giunge sulle nostre tavole. Ma il pericolo da sostanze nocive non deriva solo da ciò che portiamo in tavola. Anche la nostra casa, l’ambiente in cui si trascorre più tempo rispetto a tutti gli altri luoghi, può costituire un reale pericolo per la nostra salute.

Parliamo della formaldeide.

La formaldeide è un composto organico volatile (COV). Alla famiglia dei COV appartengono composti di diverse famiglie chimiche come idrocarburi, acetoni, alcoli, aldeidi ecc.

Tutti i COV hanno la proprietà comune d'evaporare facilmente a temperatura ambiente, e di diffondersi nell'aria sotto forma di gas. Generalmente sono incolore ma il loro odore è caratteristico.

Il tasso di concentrazione della formaldeide in ambienti abitati non dovrebbe superare i 0,125 mg per metro cubo. La formaldeide ha un’alta concentrazione anche nel fumo di tabacco.

Persone particolarmente sensibili possono accusare seri disturbi anche in presenza di quantità inferiori ai limiti fissati. I sintomi possono essere di vario tipo: irritazione e infiammazioni agli occhi (pruriti, lacrimazione), alle vie respiratorie (naso, gola, polmoni) e alla pelle (arrossamento, prurito, eczemi). Altri sintomi sono il manifestarsi di stanchezza, angosce, emicranie, nausea, sonnolenza o vertigini. A lungo andare si possono sviluppare vere e proprie allergie. L’IARC (International Agency for Research on Cancer) ha dichiarato che la formaldeide, in alte concentrazioni, è cancerogena per l’uomo.

Ma da dove viene questa formaldeide? È presente in numerosi prodotti d'uso corrente: schiume isolanti, lacche, colle, vernici, inchiostri, resine, carta, prodotti per la pulizia, pesticidi, ecc. La maggior parte di tipi di legno agglomerato o compensato (mobilio, materiali da costruzione) ne contiene.

Ed è proprio di quella contenuta nei mobili che vogliamo parlare. La norma europea EN 120 prevede 3 classi distinte: E1, E2, o E3. La classe E1 identifica i pannelli legnosi con la più bassa emissione. La prima cosa da fare per tutelare la propria salute ed abbassare fino a quasi annullare il rischio formaldeide è quella di tenere gli ambienti di casa ben areati mantenendo un’umidità tra il 40 e il 60%. Può aiutare molto, inoltre, per neutralizzare la formaldeide, tenere in casa piante quali il ficus, la felce, lo spata filo, la dracena.

Ma, la mossa migliore per vivere in un ambiente salubre è quella di porre attenzione al momento dell’acquisto di un mobile o un qualsiasi altro complemento d’arredo. Purtroppo, il controllo di qualità su questo tipo di oggetti non esiste proprio e moltissime persone, visitando i grandi centri commerciali ed empori che traboccano di mobili e mobiletti provenienti dall’oriente (Cina, India ecc.), motivati dai prezzi talvolta veramente bassi, si lasciano andare ad acquisti d’impulso senza valutare a fondo i pericoli derivanti dalla mancanza assoluta di garanzia sui materiali e le vernici impiegate.

La cosa migliore da fare, quando si deve acquistare un mobile, è quella di rivolgersi ad un produttore conosciuto, che possa fornire le garanzie necessarie in fatto di materiali, collanti e vernici impiegate nei vari processi di lavorazione del mobile. Accanto a queste garanzie, è possibile ottenerne un’altra non meno importante: che il prodotto è stato realizzato in ambienti adatti alle specifiche lavorazioni richieste, e che la manodopera impiegata non deriva da lavoro infantile e non comporta alcuno sfruttamento dei lavoratori.

Il costo, molto probabilmente, risulterà più elevato rispetto un mobile “apparentemente” uguale.

Un’ottima soluzione per contenere la spesa è quella di ridurre notevolmente la filiera che porta il mobile nel punto vendita. Rivolgersi direttamente al produttore rappresenta il massimo del risparmio realizzabile.

http://www.styledesign.it/ è un sito di vendita di mobili stilizzati ad un prezzo non riscontrabile in nessun altro punto vendita. I mobili sono certificati in tutti i componenti come rispondenti alle norme attualmente in vigore in fatto di sicurezza e tutela del consumatore. Le realizzazioni avvengono interamente all’interno dell’azienda. Dalla progettazione all’imballaggio. Questo permette il massimo contenimento dei prezzi, a tutto vantaggio del cliente. Su http://www.styledesign.it/ i mobili sono costruiti e certificati con materiali E1. La lucidatura o laccatura sono tutte a base d’acqua. Sono mobili bellissimi che si possono tranquillamente posizionare all’interno di ogni abitazione senza rischi.


di Arteferretto

10 consigli per dimagrire evitando diete faticose

10 buoni consigli per dimagrire


1° cerca di essere attivo , almeno 3 h alla settimana di attività fisica che ti piaccia,non importa quale, se non hai la possibilità di frequentare palestre, nuotare andare in bicicletta o correre cerca di usare meno possibile l’ascensore e l’automobile, fai le scale e usa una bicicletta o cammina a passo spedito. Ottimo anche l'utilizzo di una buona pedana vibrante

2° Tieni alto l’apporto giornaliero di proteine (carne bianca carne rossa ,pesce, tonno, latte magro formaggi magri almeno 1,5-2g per chilo di peso corporeo e al contempo abbassa le calorie derivanti dai carboidrati (pane pasta riso dolci alcool) non più di 2-3g per chilo di peso corporeo. Utilizza almeno 10-15g di grassi buoni al giorno (olio di oliva , olio di semi di lino olio di pesce) utilizza 4-5porzioni di verdura con scarso apporto calorico e riccadi fibre.

3° La sera prima di andare a letto non mangiare niente ,eventualmente solo proteine in polvere con acqua o latte magro.

4° Usa un buon termogenico o un bruciatore di grassi se hai problemi di pressione alta.

5° Se hai la possibilità di frequentare una palestra ,quando sei in palestra allenati non fare comunella al bar.

6° Gli esercizi base che utilizzano i grandi gruppi muscolari sono sempre i migliori. Tapis roulant, Stepper, ellittico, Distensioni su panca ,Pressa Lat machine etc,etc.

7° Durante la settimana tieniti un giorno di libertà per mangiare quello che non hai mangiato negli altri giorni.

8° Non fissarti solo con gli esercizi aerobici ,ottimi per bruciare grasso, ma utilizza anche i pesi per mantenere efficiente la muscolatura e attivo il metabolismo basale.

9° Fai in modo che il tuo allenamento sia divertente

10° Suddividi il totale calorico giornaliero in almeno 5-6 pasti.

Fabio Rizzi

di Emporio del fitness

Testosterone e Tumore della prostata: un mito da sfatare

INTRODUZIONE

Come per la donna anche per l’uomo invecchiare significa andare incontro ad una serie di modificazioni ormonali che prendono il nome di andropausa. Anche se i cambiamenti sono meno drammatici e repentini di quelli che caratterizzano la menopausa, essi rimangono pur sempre un elemento fondamentale della perdita di salute tipica dell’invecchiamento maschile. Le conseguenze sono svariate e coinvolgono una riduzione dei livelli di energia e di libido, la perdita di massa muscolare, la riduzione della densità ossea, il peggioramento dell’umore e delle facoltà cognitive e l’aumento di grasso soprattutto addominale. Tutto ciò si associa più o meno direttamente allo sviluppo di numerose malattie cronico-degenerative tra cui le malattie cardio e cerebro-vascolari, il diabete, le dislipidemie, la sindrome metabolica, la depressione e l’Alzheimer.

Tuttavia per decadi la classe medica ha erroneamente sostenuto che elevati livelli di testosterone fossero la causa del tumore alla prostata mettendo così di fatto un veto sulle terapie ormonali correttive che avrebbero potuto ridurre l’incidenza delle malattie sopra elencate in molte persone e migliorare la vita dell’uomo che invecchia.

Ora questa correlazione viene messa in forte dubbio anche grazie al lavoro di Abraham Morgentaler, medico di Harvard che da anni studia la relazione tra tumore della prostata e testosterone. Recentemente il Dr. Morgentaler ha pubblicato negli USA un libro intitolato Testosterone for Life (testosterone per la vita) dove non solo indica i vantaggi per la salute di una terapia ormonale correttiva con testosterone ma anche la dissocia definitivamente dalla genesi del tumore alla prostata. La relazione tra testosterone e tumore prostatico sta subendo una radicale rivalutazione. Le più recenti evidenze scientifiche indicano come non solo una terapia correttiva con testosterone sia sicura per la prostata ma anche come il cancro prostatico sia più frequente nei maschi con i livelli più bassi di testosterone. Ma seguendo la traccia data dal libro di Morgentaler, cerchiamo di capire le origini di questa errata associazione tra livelli di testosterone e tumore della prostata.

ORIGINE DEL PROBLEMA

Il primo ad ipotizzare che il testosterone fosse responsabile del cancro alla prostata fu Charles B. Huggins, un urologo dell’università di Chicago. Huggins, che studiava l’ipertrofia prostatica benigna, negli anni quaranta osservò che nei cani la castrazione comportava un rimpicciolimento della prostata ed una regressione delle eventuali aree tumorali a causa di una riduzione drastica dei livelli di testosterone circolante. Stimolato da questi risultati, Huggins estese le sue ricerche all’uomo. Arruolò un gruppo di maschi con tumore alla prostata già metastatizzato alle ossa e ne abbassò i livelli di testosterone rimuovendo i testicoli o somministrando estrogeni. I ricercatori valutarono il dosaggio di fosfatasi acida, un enzima che aumenta nel caso di cancro alla prostata metastatizzato e osservarono che questo enzima diminuiva nei soggetti a cui veniva abbassato il testosterone e al contrario aumentava in soggetti a cui veniva somministrato testosterone. Dalla pubblicazione di quei dati l’abbassamento del testosterone divenne un trattamento standard nel tumore prostatico. Visti i problemi dovuti alla somministrazione di estrogeni (problemi cardiovascolari, trombosi, ecc) e la difficoltà per un paziente di accettare una rimozione terapeutica dei testicoli, negli anni ottanta furono introdotti nuovi farmaci noti come agonisti LHRH, sostanze cioè capaci di sostituire il fattore di rilascio dell’ormone luteinizzante e di stimolare un iniziale aumento della produzione di testosterone ed un successivo blocco completo della sua sintesi a livelli di castrazione. Nel 1966 Huggins vinse il premio Nobel per il suo lavoro sul tumore della prostata, lavoro che ha influenzato profondamente la classe medica ma che purtroppo oggi viene riconosciuto come fondamentalmente sbagliato. Basta analizzare l’articolo originale di Huggins del 1941 per capire che le sue deduzioni sono alquanto infondate. In questo articolo Huggins e il suo collega Hodges basarono le loro conclusioni sugli effetti del testosterone su un solo soggetto e utilizzarono un parametro come la fosfatasi acida che successivamente venne abbandonata proprio perchè considerata inaffidabile. Un altro studio che influì in modo importante sull’approccio della classe medica al tumore prostatico fu pubblicato nel 1981 da Willet Whitmore, uno dei più importanti urologi di quel tempo. Egli riportò una quasi universale prognosi sfavorevole nei pazienti con tumore alla prostata che ricevevano iniezioni di testosterone. Ma anche in questo caso secondo Morgentaler l’interpretazione attenta dello studio fornisce una visione diversa. Dei 52 pazienti studiati, solo quattro non avevano precedentemente ricevuto un trattamento con estrogeni o la rimozione chirurgica dei testicoli. Di questi quattro soggetti, tre continuarono la terapia con testosterone fino a 310 giorni senza conseguenze negative e uno ebbe una risposta favorevole. Questo esperimento mise alla luce un aspetto molto importante: l’assenza di effetti negativi in soggetti non precedentemente trattati con terapie mirate ad abbassare i livelli di testosterone. Gli autori ipotizzarono che i livelli endogeni normali di testosterone fossero sufficienti per dare una stimolazione massimale della prostata e che livelli superiori a questi non avessero alcun impatto sullo sviluppo della ghiandola. Ovviamente la cosa cambia in soggetti a cui il testosterone è stato precedentemente soppresso a livelli di castrazione.

Questi aspetti, che sono ovviamente di fondamentale importanza, andarono in qualche modo persi in quanto la comunità medica si concentrò sul titolo dell’articolo in cui veniva menzionata solamente una repentina crescita del tumore alla prostata in soggetti trattati con testosterone. Era necessario leggere l’intero articolo per capire che questo era vero solo per i soggetti in cui il testosterone era stato precedentemente soppresso. Nel 2006 Leonard Marks pubblicò uno studio che confermò questa ipotesi e la rafforzò utilizzando mezzi molto più sofisticati di quelli adoperati nei precedenti esperimenti. Un gruppo di soggetti con basso testosterone fu trattato con iniezioni di testosterone o di placebo ogni due settimane per sei mesi. All’inizio e alla fine dello studio furono misurati i livelli di testosterone e di diidrotestosterone (DHT), un suo metabolita molto più attivo sul tessuto prostatico sia nel sangue che direttamente nella prostata. Fu osservato che anche se i livelli circolanti di testosterone e DHT aumentarono notevolmente nei soggetti trattati, le concentrazioni nel tessuto prostatico non cambiarono per nulla e rimasero simili ai livelli riscontrati nei soggetti trattati con placebo. Inoltre i biomarker della crescita cellulare prostatica (PSA) non aumentarono nel gruppo trattato. Lo studio in sostanza dimostrò che aumentare i livelli circolanti di testosterone non significa automaticamente aumentarne le concentrazioni a livello tissutale. Questo esperimento evidenzia come la prostata sia in grado di regolare la propria esposizione al testosterone: una volta esposta ad una quantità adeguata di testosterone, qualsiasi successivo aumento viene trattato come un eccesso e non viene accumulato a livello tissutale. A livelli molto bassi di testosterone (vicino a livelli di castrazione) la crescita prostatica è molto sensibile ai cambiamenti di concentrazione del testosterone stesso. Ulteriori cali faranno ridurre le dimensioni della prostata e al contrario aumenti della concentrazione tissutale di testosterone faranno ingrandire la ghiandola. Tuttavia una volta raggiunto il livello di saturazione ghiandolare, ulteriori aumenti di concentrazione del testosterone avranno poco o nessun effetto sulla crescita della ghiandola e di un eventuale tumore. Studi sperimentali evidenziano come questo livello di saturazione si raggiunga a concentrazioni piuttosto basse di testosterone.

IL RUOLO DEGLI ESTROGENI

Nella salute di una donna in particolare ma anche di un uomo l’equilibrio tra androgeni ed estrogeni è di fondamentale importanza. E’ abbastanza riduttivo chiamare il testosterone l’ormone maschile e gli estrogeni ormoni femminili in quanto entrambi sono presenti ed hanno funzioni importanti in entrambi i sessi. Quello che rende i due sessi diversi da un punto di vista morfologico e comportamentale è un diverso rapporto tra questi ormoni che per di più varia nel tempo: nella donna prevalgono gli effetti degli estrogeni ma con la menopausa cessa la produzione ovarica di ormoni ma continua la produzione di androgeni (ormoni maschili) da parte delle surrenali lasciando la donna in una nuova condizione di dominanza androgenica. Nell’uomo prevalgono gli effetti del testosterone ma con l’andropausa viene ridotta la produzione testicolare di ormoni e il testosterone viene convertito nel tessuto adiposo in estrogeni da parte di un enzima detto aromatasi. Il maschio passa quindi ad una relativa dominanza estrogenica. E’ lecito quindi chiedersi se questa inversione degli equilibri ormonali sia in qualche modo legata all’aumento di patologie cronico-degenerative che aviene caratteristicamente sia dopo la menopausa che dopo l’andropausa. In effetti sembrerebbe proprio che i maschi con livelli ridotti di testosterone e un eccesso di estrogeni abbiano un rischio maggiore di sviluppare un tumore prostatico. Gli studi pubblicati da Morgenteler e da Rhoden e soprattutto il Prostate Cancer Prevention Trial hanno inequivocabilmente dimostrato come gli uomini con bassi livelli di testosterone abbiano un rischio di sviluppare un tumore prostatico pari a soggetti di dieci anni più vecchi. Questo è importante visto che l’età è il fattore di rischio numero uno nel tumore della prostata. Questi studi fanno emergere una correlazione tra riduzione dei livelli di testosterone e aumento del rischio di tumore alla prostata.

Da queste osservazioni emerge un altro aspetto: la riduzione del testosterone comporta in genere in un aumento della massa grassa che è ricca di armotasi, l’enzima che trasforma il testosterone in estradiolo, il principale estrogeno. E’ noto che la prostata esprime recettori per gli estrogeni e che questi hanno un effetto importante sullo sviluppo e sulla progressione del tumore prostatico tanto è vero che l’uso di anti-estrogeni rallenta la progressione di tumori già esistenti.

CONCLUSIONI

Sebbene l’eziologia del tumore della prostata non sia ancora del tutto chiara è evidente come non si possa più ritenere il testosterone il responsabile di tale tumore. Il quadro è ovviamente molto più complesso di così e del resto se il testosterone ne fosse la causa il cancro prostatico sarebbe una malattia giovanile e invece la sua incidenza aumenta proprio negli anni in cui la produzione di testosterone diminuisce. Studi recenti nel campo della genomica hanno portato alla luce il ruolo di polimorfismi genetici (variazioni individuali di particolari geni) nel determinare il rischio di sviluppare un tumore alla prostata. Di particolare importanza sembrano per esempio essere geni coinvolti nella produzione di steroidi come il gene AT e 5-alfa reduttasi (SRD5A2) che catalizza la trasformazione del testosterone in DHT.

Quello che è certo a questo punto è che per sessant’anni la comunità medica si è rifiutata di usare terapie correttive dell’andropausa per la paura che il testosterone potesse dare luogo ad un cancro. Sembra che questa paura fosse largamente infondata e per questo una comunità crescente di medici oggi ritiene sia necessario trattare le complesse degenerazioni causate dal calo del testosterone nell’uomo che invecchia. Livelli ridotti di testosterone non proteggono dal tumore della prostata e anzi potrebbero aumentarne il rischio soprattutto se associati ad elevati livelli di estrogeni. E’ importante comunque sottolineare che nei soggetti in cui esiste un tumore e soprattutto in quelli già trattati con terapie soppressive del testosterone, una sua assunzione potrebbe accelerare la crescita del tumore.

Articolo "Il legame tra testosterone e tumore della prostata: un mito da sfatare" di  Filippo Ongaro edito dalla casa editrice Salus Infirmorum è disponibile sul sito http://www.edizionisalus.it./ Il Dott. Filippo Ongaro è stato per anni medico degli astronauti presso l’Agenzia Spaziale Europea ed ha lavorato alla NASA e all’Agenzia Spaziale Russa. Oggi è Direttore Scientifico dell’Istituto di Medicina Rigenerativa e Anti-Aging di Treviso e collabora con enti di ricerca tra cui l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e l’Institute for Biomedical problems di Mosca.

pubblicato da:

di Cronolibri - http://www.librisalus.it/

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