La gola è quel desiderio d’appagamento immediato e compulsivo che affonda negli elementi più arcaici della psiche umana: il bisogno di cibo. Come tale, esso parla della condizione dell’essere umano, della sua eterna dipendenza, del suo vincolo originario e, di conseguenza, dell’umana fragilità. Ma se apparentemente il peccato di gola parla esclusivamente di elementi materiali, come il cibo e la sopravvivenza, in realtà esso è un’importante allegoria di tematiche esistenziali. Parlare di gola, infatti, conduce inevitabilmente alla radice dell’autostima, e diventa una verifica ed una riprova dell’accettazione di sé o dell’odio per se stessi. Il rapporto degli adulti con il cibo è il corrispettivo (e il risultato) del rapporto che quell’adulto ha avuto con il seno materno, prima fonte d’alimentazione, e quindi con la madre. Le più recenti scoperte di Neonatologia hanno dimostrato che l’allattamento al seno è un’esperienza psicologica profonda, incisiva e gratificante sia per la mamma che per il bambino, i cui effetti si imprimono profondamente nella psiche. Il rito dell’allattamento non è soltanto fonte di nutrimento ma soprattutto è il veicolo fondamentale della speciale relazione che si crea tra entrambi. Esso è composto non solo da latte, ma anche da sguardi intensi, da odori, da sensazioni forti e profonde: protezione, sicurezza, dolcezza. Una complessa alchimia, una sorta di proto-relazione che farà da calco per molte relazioni future. La suzione del latte è quindi il pattern simbolico del rifugio, del dono, dell’introdurre e della capacità di affidarsi totalmente. Ma è anche la fonte della speranza nella vita, della capacità di costruire certezze nella propria esistenza, la radice dell’ottimismo.
Si comprende quindi facilmente che il rapporto primigenio con il cibo svilupperà propaggini psicologiche nelle relazioni affettive e nelle relazioni di coppia e in generale condizionerà, nel bene e nel male, la propria visione del mondo. Per il neonato che affronta lo sgomento provocato dalle misteriose contrazioni della fame, il cibo rappresenta la salvezza, la pacificazione, la protezione di fronte all’abisso dell’angoscia. Il cibo diventa così, nelle migliori condizioni, il simbolo del Bene, il baluardo difensivo contro le orde del buio e della morte. Ma quale sarà il rapporto con l’introiezione quando l’allattamento non è perfettamente sincronizzato con le fasi della fame? Che cosa accade, per esempio, quando il seno è assente? Un seno assente, o irregolare e discontinuo, stabilisce una precisa modalità psicologica di privazione, infonde un senso di bassa autostima, di negazione e – più spesso di quello che si pensa – di vero e proprio rifiuto. E poiché il seno perfetto non esiste, è anche grazie a queste frustrazioni che l’individuo può costruire una più realistica immagine del mondo, evitando il rischio di idealizzare la relazione con l’Altro ed evitando il pericolo di rinchiudersi in una pretesa di soddisfacimento a tutti i costi. Pur tenendo conto di un’ampia variabilità individuale, una madre ‘sufficientemente buona’ – secondo le scoperte di D. Winnicott – rappresenta quel giusto mix tra gratificazione e frustrazione, il quale può aiutare il bambino ad essere realmente equilibrato.
Ma per giungere a riflettere sul peccato di Gola, parlando di cibo, è inevitabile soffermarci su altri due aspetti fondamentali: il tema del bisogno e il tema del controllo. Si tratta di due temi che vanno ben di là della cornice delle condotte alimentari, espandendosi nell’ambito del rapporto con se stessi, della gestione dei propri limiti, del rischio dell’ideale di perfezione assoluta, di un bisogno di certezze nella vita che spesso può diventare ossessivo. Quando la gestione del maternage (gestazione, parto, allattamento, ecc.) è stata complessa, instabile o difficile, l’adulto può sviluppare problematiche relative alle dipendenze e alle condotte alimentari. Alcune madri danno da mangiare al figlio ogni volta che vogliono manifestargli affetto oppure riempire vuoti emotivi (e assenze), consolidando l’idea che cibarsi, ingerire qualcosa per calmarsi, sia la soluzione alla tristezza o al senso di vuoto. Al contrario, in altri casi, il bambino può percepire un senso ambivalente di amore e di invadenza materna. In entrambi i casi, spesso l’obiettivo inconscio dell’adulto diventa quello di realizzare un controllo dei bisogni, ritenuti minacciosi, e di affermare la completa assenza di dipendenza. Il cibo – e in generale le condotte legate all’oralità (tabagismo, alcolismo, droga, ecc.) – rappresentano invece l’emblema della dipendenza, l’effige del bisogno e della fragilità umana.
Quando la dipendenza è ritenuta minacciosa, il bisogno di cibo va ossessivamente tenuto controllo, sviluppando condotte anoressiche oppure bulimiche (attraverso le privazioni, il vomiting, l’abuso di lassativi, diuretici, clisteri, ecc.). In entrambi i casi, l’alimentazione diviene un’area qualitativamente alterata e l’assunzione di un alimento assume significati simbolici e psicologici diversi, ma sempre legati all’inconscia illusione di gestire l’angoscia, il senso di vuoto, il bisogno compulsivo di controllo. In altre parole, il cibo – da fonte originaria di consolazione e rassicurazione – diventa un campo di battaglia epica e onnipotente.
I dati più recenti osservano in Europa e in Italia, non solo uno sviluppo esponenziale dell’obesità ma anche che anoressia e bulimia, che si pensava fossero esclusivamente riservate all'universo femminile, sono in continua crescita anche nella popolazione maschile. La stima è complessivamente di oltre cinque milioni di persone con disturbi delle condotte alimentari, mentre sarebbe in sovrappeso il 60.5% degli adulti italiani, obeso il 23.9%, e il 3.0% estremamente obeso. Anche se continua a prevalere una maggiore morbilità relativa alle donne, negli ultimi cinque anni, è duplicato il numero di uomini colpiti da anoressia e bulimia, fino a raggiungere una quota del 10% sul totale dei casi diagnosticati. A questi vanno poi aggiunti tutti i casi subclinici, che presentano crisi ancora non cronicizzate e tutti i casi invisibili perchè non rilevati e non diagnosticati. Sono un numero imprecisato di individui che non hanno ancora una piena consapevolezza del proprio problema, che lo percepiscono con vergogna e con un senso di umiliazione e fallimento personale.
Fino a pochi decenni fa, si considerava i disturbi delle condotte alimentari come il risultato casuale di un’indesiderata variazione di peso originata dalla probabile scarsa volontà dell’individuo nel controllo del cibo e alla ricerca di gratificazioni orali. Oggi si ha la certezza che i disturbi alimentari si sviluppano sempre in seguito ad un ampio ventaglio di vicende psicologiche. Come ad esempio un lutto, una separazione, l’ingresso nel mondo degli adulti, maltrattamenti, il cambiamento o la perdita del lavoro, ecc.. In generale tuttavia le cause sono sempre facilmente riconducibili alla rimozione della propria angoscia. L’angoscia in questi casi è infatti spesso originata proprio dalle minacce che tutte queste vicende possono causare al senso di identità personale. Un individuo che ha vissuto un maternage difficile può infatti sviluppare una falsa personalità, o Falso Sé. Questa falsa personalità può installarsi con l’aspetto di una maschera sociale di pseudo-indipendenza, un abito collettivamente accettabile fondato sul successo nel lavoro o nella scuola, su rapporti apparentemente integrati ed efficienti. Soltanto nei momenti di segreta intimità, nel privato, la maschera crolla e l’individuo in preda all’angoscia si abbandona alle pratiche di vomito procurato, ai clisteri, all’abuso di farmaci anoressizzanti. Dietro questa maschera infatti possono trovarsi facilmente sentimenti di bisogno, di dipendenza che appaiono inconfessabili insieme ad un senso di disprezzo per se stessi e per la natura ipocrita delle relazioni che si attribuiscono agli altri.
L’orgia alimentare e le pratiche di svuotamento coatto riconducono sul corpo quel vissuto intimo e psicologico di devastazione. Ma è anche un grido di aiuto incapace di essere verbalizzato, che talvolta l’adulto percepisce, ma non sempre comprende, accetta o elabora. Il percorso di cura non è quindi indirizzato all’appetito o ad una migliore gestione delle diete, ma è sempre di natura psicologica. Esso deve necessariamente attraversare quel cortocircuito emotivo fatto di paure, rabbia, preoccupazioni, senso di colpa e solitudine. L’intervento deve essere fondato sull’ascolto delle dinamiche familiari ed orientato a sciogliere i meccanismi non verbali di ricatto affettivo, colpevolizzanti e collusivi.
Quando poi il problema investe un adolescente, è importante che i genitori si sforzino di spostare il focus della loro attenzione dalla nutrizione, che inevitabilmente diventa un tema familiare ossessivo, alla reale sofferenza del figlio o della figlia. Sofferenza che, per un motivo o per l’altro, spesso rimane negata, rimossa e nascosta da un meccanismo di reciproca complicità tra figlio e genitore. L’intervento psicoterapeutico è quindi, prima di tutto, un processo di ricostruzione interiore e non un tampone occasionale di natura cognitiva o intellettuale. Esso deve concentrarsi sul fornire all’individuo gli strumenti per imparare a gestire da sé un controllo ragionevole sulla realtà esterna, che non sia ingenuo ma dall’altra neppure paranoico o compulsivo. La psicoterapia deve inoltre saper fornire le competenze per gestire concretamente e in modo autentico le crisi di vuoto, imparando ad inserirle in oscillazioni umorali del tutto fisiologiche. Ma oltre a sviluppare nuove abilità, questo percorso è infine soprattutto una ricerca di senso, di elaborazione del dolore che non sia esclusivamente legato alla cancellazione del sintomo. Ma che preveda anche l’elaborazione di un significato esistenziale di quell’angoscia e che per questo, sappia fornire reali strumenti per trasformare la propria visione del mondo, consentendo una migliore conoscenza di sé e del proprio universo.
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