google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0 SALUTIAMOCI google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0

La vitamina D prodotta dall’esposizione solare potrebbe aiutare a riparare i danni dell’epidermide

E se il sole, anziché danneggiarla, facesse bene alla pelle? Alcuni ricercatori della Stanford University sostengono che se preso nella dose giusta, potrebbe aiutare a riparare danni alla pelle causati dall’eccessiva esposizione al sole, attivando un particolare processo immunitario.
Con l’esposizione alla luce solare, spiegano gli studiosi, le cellule dell’epidermide producono una forma «inerte» di vitamina D che – secondo le conoscenze attualmente a disposizione – viene resa attiva, e dunque utilizzabile dall’organismo, per mezzo di recettori nei reni e nel fegato. Il gruppo di ricercatori ha individuato un similare meccanismo a livello dell’epidermide che coinvolge le cosiddette «cellule dendritiche». Queste convertono la vitamina D prodotta a seguito dell’esposizione al sole nella sua forma attiva. Questa, a sua volta, induce le «cellule T», che hanno il compito di distruggere le cellule danneggiate o ammalate, a migrare verso gli strati superiori della pelle nel caso in cui, per esempio, accade che il sole danneggi il DNA delle cellule epidermiche.
«I risultati sperimentali – afferma Hekla Sigmundsdottir, una componente del gruppo di ricercatori di Stanford – spiegano il meccanismo attraverso il quale le cellule T “sanno” di doversi dirigere verso la superficie». La scienziata fa anche notare che la psoriasi, malattia della pelle, viene spesso trattata con creme a base di vitamina D3: questa terapia potrebbe dunque funzionare proprio stimolando la migrazione delle cellule T verso la superficie della pelle.
Ma se il sole e la vitamina D possono svolgere un ruolo di protezione della pelle, tengono a precisare gli esperti, è bene comunque non prolungare eccessivamente l’esposizione: il sole va sempre preso in dosi moderate in modo da evitare pericolosi danni all’epidermide. Quindi sì alla tintarella, ma senza esagerare.

di TSW srl

Cosè lo Yoga?

La mente umana, nel suo processo evolutivo, é stata rischiarata dalla luce della consapevolezza, generando sistemi il cui fine é il miglioramento della condizione umana.
Sono le circostanze che, talvolta, determinano la collocazione geografica, dove, tali sistemi, si manifestano più chiaramente al mondo.
Così, lo Yoga trova in India la collocazione storica della sua nascita rimanendo, in seguito, altresì imprigionato nella cultura religiosa di questo paese.
Ciò diviene determinante ai fini del ricercatore il quale, oggi, deve per forza passare attraverso la cultura indiana per poter comprendere il fine ed utilizzare le tecniche che vanno a formare il sistema di Liberazione denominato Yoga. E quando si dice "liberazione" si intende dire liberazione dal giogo della sofferenza umana ma per un Hindù rappresenta, inoltre, la via per liberarsi dal ciclo del samsara o delle rinascite indissolubilmente legate alla distorta visione dei sensi che impedisce lo scioglimento dell'unione con la sofferenza e l'accesso alla conoscenza del Sè assoluto.

La parola Yoga, dunque, appartiene al mondo spirituale e, qualche volta, utopistico indiano, anche se lo Yoga più antico, alcuni sostengono, non presentasse alcuna connotazione di tipo culturale o religioso.
L'antica origine dello Yoga è sicuramente pre-aria come testimoniano i ritrovamenti archeologici di Harrappa e Mohenjo-daro città appartenenti alla civiltà della valle dell'Indo che precedono lo sviluppo dell'India vedica.
Lo Yoga ritenuto classico, invece, vede la luce nei primi secoli della nostra era ed é considerato uno dei sei Darsana, o punti di vista, del pensiero filosofico-religioso Hindù la cui codificazione, come tutti sanno, si attribuisce a Patanjali, compilatore degli Yoga-sutra o Aforismi dello Yoga di datazione, come sempre accade quando si é a contatto con la storia indiana, assai incerta.
Come si é detto già tante volte, Yoga é una parola sanscrita che derivando dalla radice del verbo Yuj indica l'atto di aggiogare. Esempio: aggiogare i buoi al carro. Il suo significato accorda a questo sistema il ruolo di disciplina laddove si pensi di aggiogare la personalità istintuale presente nella natura umana, per orientarla e finalizzarla verso scopi ben più alti rappresentati da altri significati, che vedremo in seguito, attribuibili al verbo Yuj.
I fautori di questa disciplina, inizialmente si addestrano, in ambito psico-somatico, ad aggiogare mente e corpo per ottenere una perfetta unità, operante a profondi livelli verso una singola idea.
Essi passano così a sperimentare una prima sensazione di aggregazione armonica che corrisponde ad uno stadio piacevole nel quale la mente risulta parzialmente riorganizzata.

Per tornare al verbo sanscrito Yuj, troviamo quasi sempre indicati, come vi dicevo, altri significati oltre il più intrinseco "aggiogare" che ritengo possano rappresentare precise tappe e relative esperienze di coscienza, come quella sopra descritta legata al verbo unire o unione se riferito alla parola Yoga.

Una terza proposta interpretativa, appunto, si ravvisa nella parola "fusione" che per lo Yoga rappresenta il livello coscienziale d'esperienza relativamente più avanzato che, di solito, segue la completa realizzazione dell'unione psico-fisica.
In questo stadio il soggetto dopo aver preso atto dell'interrelazione dinamica esistente tra sé e ciò che lo circonda, la realizza fortemente anche come sensazione.
Ciò vale a far cadere le ultime resistenze e contrarietà verso aspetti della manifestazione, naturalmente anche verso gli uomini, sentendosi in fusione ed a loro legato da qualcosa di comune.
Cambia a questo punto la sua visione del mondo. Le parole amico, nemico o indifferente vengono sostituite da favorevole, sfavorevole o neutrale e, per conseguenza, si presenta in lui una più evidente stabilità emotiva.
Le memorie, soprattutto attraverso la pratica della meditazione, vengono anch'esse riorganizzate e spogliate dall'aspetto emotivo.
Il pesante fardello, che in molti casi costituisce il deprimente passato, viene sciolto e spesso si nota lo scomparire dei sensi di colpa.
L'individuo può così incamminarsi verso un quarto stadio di realizzazione che lo porterà a cercare la gioia duratura e ciò che sta oltre l'ordinario, ovvero il trascendente.
Lungo la via potrebbe sperimentare la suprema quiete, conoscere e riposare nella vera essenza del suo essere.
Attraverso una continua meditazione sul vero sè, che è pura coscienza eterna ed al dilà del complesso psico-somatico e delle oppressioni mondane egli potrebbe giungere alla libertà.
Nel pieno successo di questa fase il soggetto dovrebbe tornare ad integrarsi, o meglio si reintegrerebbe nella collettività, si pensa privo di resistenze, e con una chiarissima visione della realtà.

Per concludere questa prima parte devo per di più affermare che la scienza dello Yoga esige di insegnare un metodo che permetta di conseguire l'unione completa del Sé, cioè della realtà spirituale presente in ognuno di noi con quella universale la cui costituzione sarebbe, secondo una ipotesi dell'antica letteratura, realtà, coscienza, beatitudine (Satchidananda).
Questa unione sarebbe l'unico vero Yoga. Il punto da dove si parte per questa esperienza.
Uno stato di coscienza nel quale i mistici si propongono di incontrare e conoscere Dio.
Un percorso, forse a ritroso, per mezzo del quale il generato, per così dire, ritornerebbe nel grembo del generante, anzi fondendosi nella stessa natura di quest'ultimo sicuramente perdendo la sua identità individuale.

di Amadio Bianchi
di C.Y.Surya

Qual'è la differenza fra le discipline orientali e quelle occidentali?

Le prime tendono principalmente ad unificare il complesso psicosomatico verso la sostanza spirituale, le seconde verso quella materiale. Esse sono come i due poli dell'universo che rappresentano l'espressione concreta della manifestazione. Non è quindi il caso di dare vita alla solita sterile polemica nella quale si specula su ciò che potrebbe essere superiore o inferiore.
Le discussioni a cui qualche "settario" si abbandona nel tentativo di ottenere ad esempio la supremazia dell'uomo rispetto alla donna e viceversa, io credo non abbiano giustamente portato mai a nulla di buono.
Quello che bisogna comprendere è che l'universo manifesto ha necessità di sostenersi mediante tutti e due i poli. Dico questo perché ultimamente in occidentale è presente una forma di "orientefilia" che porta le persone a snobbare la visione occidentale materialista e esse non si accorgono, come ho già più volte affermato, che l'oriente, in particolar modo l'India, si trova ad essere fortemente impegnata proprio verso questa direzione. È giusto così, poiché il giusto sta nella presenza forte di entrambe i poli. Donne forti e uomini forti alzano la qualità del genere umano. Una buona realizzazione materiale unita ad una altrettanto valida realizzazione spirituale conducono l'uomo a sperimentare stati di appagamento e di gioia che sono premessa di tranquillità e pace.

Secondo chi scrive l'umanità sarà sempre più impegnata sulla via che conduce al ritrovamento o al recupero di discipline "psicosomatiche", come del resto questi ultimi anni hanno dimostrato, consapevole della differente qualità del risultato. L'oriente "equilibrato", libero cioè da eccessi interpretativi, ha già dato chiare indicazioni verso questa direzione. Alcuni saggi hanno indicato una "via di mezzo", una terza via di sperimentazione che dovrebbe condurre all'equilibrio. Mi associo dichiarando che il benessere che ognuno di noi ricerca nelle discipline sia orientali sia occidentali, insorge quando il fanatismo è mantenuto lontano e quando nel comportamento umano c'è assenza di competizione.

Del resto il fanatismo settario è ben presente anche in talune discipline occidentali che divengono dannose per la salute psicofisica del soggetto. Basti pensare cosa accade quando per un eccesso di "apparenza" fisica si arriva ad usare oltre ai "pesi", farmaci pericolosi per la salute. Ma sono anche convinto che spesso certi "pesi" non sono più indicati per una normale colonna vertebrale, una struttura ossea e muscoli di un genere umano ormai reso debole dal tipo di vita. Troppi sono i danni che personalmente ho constatato, come terapeuta, su molte persone che hanno lavorato in palestre dove si asseconda la filosofia dell'apparire e non dell'essere. Danni fisici talvolta irreparabili e naturalmente anche danni "interiori". Meno male che l'oriente ci ha portato a riflettere stimolando il recupero di certi valori.

di Amadio Bianchi
di C.Y.Surya

Il Dharma e il Karman (la legge di causa-effetto)

in India un principe, fin da bambino, nella remota antichità, veniva affidato alle cure di un maestro perché innanzitutto lo istruisse sul Dharma, e questo tipo di istruzione doveva precedere tutte le altre, comprese quelle specifiche delle arti marziali, relative alla casta dei guerrieri a cui apparteneva, affinché le sue azioni potessero in seguito essere sempre illuminate dal giusto (Dharma) e per conseguenza portarlo verso la realizzazione e la felicità di se stesso e degli altri.
La cultura spirituale indiana, oserei dire da sempre, suggerisce il risveglio della consapevolezza come via di ralizzazzione.
Ed è proprio per mancanza di consapevolezza che l'uomo oggi compie le sue azioni scorrette e poi come un bambino si lamenta dei mali di cui lui stesso è causa. Basti vedere cosa accade nella nostra società, dove, senza più etica, si è costretti a vivere nell'infelicità, nella sfiducia reciproca e nell'insicurezza. A mio parere è giunto il momento di meditare con maggiore intensità su alcuni principi naturali, per potersi armonizzare con essi. Tutto deve partire da una comprensione delle fondamentali regole della natura che nella cultura indù prendono il nome di Dharma. La parola Dharma deriva dalla parola indoeuropea DHR che significa sostenere, mantenere in essere e qualche volta formare. Il Dharma è sia qualche cosa di fisso, stabile, saldo come nel Sanatana Dharma, letteralmente la regola eterna, il vero nome spirituale del movimento che in occidente prende il nome di Induismo, sia la natura delle cose, ciò che le fa essere così come sono e non altrimenti. È in base al Dharma, infatti, che i corpi celesti seguono il loro corso. Il Dharma è, dunque, una qualità della manifestazione così come la fragranza è un Dharma del fiore.

Il Dharma tuttavia, analizzandolo da un punto di vista di maggior nostro interesse in questa relazione, è legge della natura e ordine sia del cosmo che della vita personale poiché suggerisce le norme del comportamento individuale.
Vivere seguendo il Dharma (il proprio Dharma lo si incontra nella coscienza purificata dall'ego), significa andare verso la propria vera natura e portare questa in armonia con il Sanatana Dharma (ordine cosmico-legge divina ed eterna) è l'essenza stessa della religione per un indù.
Dal punto di vista pratico e a noi vicino il Dharma diventa come un codice di norme, come quello costituito dagli Yama dello Yoga, intese ad assicurare sia l'equilibrata relazione con gli altri e ciò che ci circonda, sia la propria salute spirituale.

Gli Yama sono cinque:

- Ahimsa: non violenza, prima norma etica, prescrizione che si deve osservare e realizzare per poter proseguire lungo la via della realizzazione.

- Satya: veracità. Consiste nella coerenza di parole pensieri ed azioni.

- Asteya: astensione dal furto, dal prendere cioè ciò che non ci appartiene ma anche sopprimere in sé addirittura il desiderio di tale appropriazione.

- Brahmacarya: controllo dell'istintualità, castità: primo passo dell'itinerario ascetico.

- Aparigraha: non avidità, non possesso.

Per un indù non tentare di seguire il Dharma significa essere nell'Avidya (parola sanscrita tradotta normalmente con ignoranza). Ma Avidya è non riconoscere la verità e quindi non riconoscere Dio e ciò porta a disastrose conseguenze come in tutta la cultura indù è testimoniato dagli antichissimi poemi epici che assumono grande importanza per chi è alla ricerca di norme comportamentali che si armonizzino con il divino.

La spiritualità indiana suggerisce una vita profondamente responsabile dove le azioni siano appunto regolate dal Dharma: tiene conto cioè della grande regola di causa effetto anch'essa insita nella manifestazione. A tale regola ha dato il nome di Karman o Karma come noi amiamo definirlo comunemente. La parola Karma deriva dalla radice del verbo sanscrito Kr che significa fare, agire. Anche l'universo stesso è un Karma, è l'effetto e conseguenza di un'azione divina.
Nel microcosmo il Karma ci porta di fronte al frutto delle nostre azioni. In altri termini noi risultiamo dal nostro passato ma è anche vero che il nostro futuro risentirà delle azioni che stiamo compiendo ora.
Le azioni corrette portano bene e felicità. Le azioni corrette sono quelle regolate dal Dharma.
Non perdiamo altro tempo, dunque. Impegnamoci seriamente nello studio del Dharma perché questo possa regolare le nostre azioni e condurci ad una illuminata realizzazione piena di Ananda (beatitudine).

di Amadio Bianchi

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