google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0 SALUTIAMOCI google.com, pub-4358400797418858, DIRECT, f08c47fec0942fa0

10 consigli per dimagrire evitando diete faticose

10 buoni consigli per dimagrire


1° cerca di essere attivo , almeno 3 h alla settimana di attività fisica che ti piaccia,non importa quale, se non hai la possibilità di frequentare palestre, nuotare andare in bicicletta o correre cerca di usare meno possibile l’ascensore e l’automobile, fai le scale e usa una bicicletta o cammina a passo spedito. Ottimo anche l'utilizzo di una buona pedana vibrante

2° Tieni alto l’apporto giornaliero di proteine (carne bianca carne rossa ,pesce, tonno, latte magro formaggi magri almeno 1,5-2g per chilo di peso corporeo e al contempo abbassa le calorie derivanti dai carboidrati (pane pasta riso dolci alcool) non più di 2-3g per chilo di peso corporeo. Utilizza almeno 10-15g di grassi buoni al giorno (olio di oliva , olio di semi di lino olio di pesce) utilizza 4-5porzioni di verdura con scarso apporto calorico e riccadi fibre.

3° La sera prima di andare a letto non mangiare niente ,eventualmente solo proteine in polvere con acqua o latte magro.

4° Usa un buon termogenico o un bruciatore di grassi se hai problemi di pressione alta.

5° Se hai la possibilità di frequentare una palestra ,quando sei in palestra allenati non fare comunella al bar.

6° Gli esercizi base che utilizzano i grandi gruppi muscolari sono sempre i migliori. Tapis roulant, Stepper, ellittico, Distensioni su panca ,Pressa Lat machine etc,etc.

7° Durante la settimana tieniti un giorno di libertà per mangiare quello che non hai mangiato negli altri giorni.

8° Non fissarti solo con gli esercizi aerobici ,ottimi per bruciare grasso, ma utilizza anche i pesi per mantenere efficiente la muscolatura e attivo il metabolismo basale.

9° Fai in modo che il tuo allenamento sia divertente

10° Suddividi il totale calorico giornaliero in almeno 5-6 pasti.

Fabio Rizzi

di Emporio del fitness

Testosterone e Tumore della prostata: un mito da sfatare

INTRODUZIONE

Come per la donna anche per l’uomo invecchiare significa andare incontro ad una serie di modificazioni ormonali che prendono il nome di andropausa. Anche se i cambiamenti sono meno drammatici e repentini di quelli che caratterizzano la menopausa, essi rimangono pur sempre un elemento fondamentale della perdita di salute tipica dell’invecchiamento maschile. Le conseguenze sono svariate e coinvolgono una riduzione dei livelli di energia e di libido, la perdita di massa muscolare, la riduzione della densità ossea, il peggioramento dell’umore e delle facoltà cognitive e l’aumento di grasso soprattutto addominale. Tutto ciò si associa più o meno direttamente allo sviluppo di numerose malattie cronico-degenerative tra cui le malattie cardio e cerebro-vascolari, il diabete, le dislipidemie, la sindrome metabolica, la depressione e l’Alzheimer.

Tuttavia per decadi la classe medica ha erroneamente sostenuto che elevati livelli di testosterone fossero la causa del tumore alla prostata mettendo così di fatto un veto sulle terapie ormonali correttive che avrebbero potuto ridurre l’incidenza delle malattie sopra elencate in molte persone e migliorare la vita dell’uomo che invecchia.

Ora questa correlazione viene messa in forte dubbio anche grazie al lavoro di Abraham Morgentaler, medico di Harvard che da anni studia la relazione tra tumore della prostata e testosterone. Recentemente il Dr. Morgentaler ha pubblicato negli USA un libro intitolato Testosterone for Life (testosterone per la vita) dove non solo indica i vantaggi per la salute di una terapia ormonale correttiva con testosterone ma anche la dissocia definitivamente dalla genesi del tumore alla prostata. La relazione tra testosterone e tumore prostatico sta subendo una radicale rivalutazione. Le più recenti evidenze scientifiche indicano come non solo una terapia correttiva con testosterone sia sicura per la prostata ma anche come il cancro prostatico sia più frequente nei maschi con i livelli più bassi di testosterone. Ma seguendo la traccia data dal libro di Morgentaler, cerchiamo di capire le origini di questa errata associazione tra livelli di testosterone e tumore della prostata.

ORIGINE DEL PROBLEMA

Il primo ad ipotizzare che il testosterone fosse responsabile del cancro alla prostata fu Charles B. Huggins, un urologo dell’università di Chicago. Huggins, che studiava l’ipertrofia prostatica benigna, negli anni quaranta osservò che nei cani la castrazione comportava un rimpicciolimento della prostata ed una regressione delle eventuali aree tumorali a causa di una riduzione drastica dei livelli di testosterone circolante. Stimolato da questi risultati, Huggins estese le sue ricerche all’uomo. Arruolò un gruppo di maschi con tumore alla prostata già metastatizzato alle ossa e ne abbassò i livelli di testosterone rimuovendo i testicoli o somministrando estrogeni. I ricercatori valutarono il dosaggio di fosfatasi acida, un enzima che aumenta nel caso di cancro alla prostata metastatizzato e osservarono che questo enzima diminuiva nei soggetti a cui veniva abbassato il testosterone e al contrario aumentava in soggetti a cui veniva somministrato testosterone. Dalla pubblicazione di quei dati l’abbassamento del testosterone divenne un trattamento standard nel tumore prostatico. Visti i problemi dovuti alla somministrazione di estrogeni (problemi cardiovascolari, trombosi, ecc) e la difficoltà per un paziente di accettare una rimozione terapeutica dei testicoli, negli anni ottanta furono introdotti nuovi farmaci noti come agonisti LHRH, sostanze cioè capaci di sostituire il fattore di rilascio dell’ormone luteinizzante e di stimolare un iniziale aumento della produzione di testosterone ed un successivo blocco completo della sua sintesi a livelli di castrazione. Nel 1966 Huggins vinse il premio Nobel per il suo lavoro sul tumore della prostata, lavoro che ha influenzato profondamente la classe medica ma che purtroppo oggi viene riconosciuto come fondamentalmente sbagliato. Basta analizzare l’articolo originale di Huggins del 1941 per capire che le sue deduzioni sono alquanto infondate. In questo articolo Huggins e il suo collega Hodges basarono le loro conclusioni sugli effetti del testosterone su un solo soggetto e utilizzarono un parametro come la fosfatasi acida che successivamente venne abbandonata proprio perchè considerata inaffidabile. Un altro studio che influì in modo importante sull’approccio della classe medica al tumore prostatico fu pubblicato nel 1981 da Willet Whitmore, uno dei più importanti urologi di quel tempo. Egli riportò una quasi universale prognosi sfavorevole nei pazienti con tumore alla prostata che ricevevano iniezioni di testosterone. Ma anche in questo caso secondo Morgentaler l’interpretazione attenta dello studio fornisce una visione diversa. Dei 52 pazienti studiati, solo quattro non avevano precedentemente ricevuto un trattamento con estrogeni o la rimozione chirurgica dei testicoli. Di questi quattro soggetti, tre continuarono la terapia con testosterone fino a 310 giorni senza conseguenze negative e uno ebbe una risposta favorevole. Questo esperimento mise alla luce un aspetto molto importante: l’assenza di effetti negativi in soggetti non precedentemente trattati con terapie mirate ad abbassare i livelli di testosterone. Gli autori ipotizzarono che i livelli endogeni normali di testosterone fossero sufficienti per dare una stimolazione massimale della prostata e che livelli superiori a questi non avessero alcun impatto sullo sviluppo della ghiandola. Ovviamente la cosa cambia in soggetti a cui il testosterone è stato precedentemente soppresso a livelli di castrazione.

Questi aspetti, che sono ovviamente di fondamentale importanza, andarono in qualche modo persi in quanto la comunità medica si concentrò sul titolo dell’articolo in cui veniva menzionata solamente una repentina crescita del tumore alla prostata in soggetti trattati con testosterone. Era necessario leggere l’intero articolo per capire che questo era vero solo per i soggetti in cui il testosterone era stato precedentemente soppresso. Nel 2006 Leonard Marks pubblicò uno studio che confermò questa ipotesi e la rafforzò utilizzando mezzi molto più sofisticati di quelli adoperati nei precedenti esperimenti. Un gruppo di soggetti con basso testosterone fu trattato con iniezioni di testosterone o di placebo ogni due settimane per sei mesi. All’inizio e alla fine dello studio furono misurati i livelli di testosterone e di diidrotestosterone (DHT), un suo metabolita molto più attivo sul tessuto prostatico sia nel sangue che direttamente nella prostata. Fu osservato che anche se i livelli circolanti di testosterone e DHT aumentarono notevolmente nei soggetti trattati, le concentrazioni nel tessuto prostatico non cambiarono per nulla e rimasero simili ai livelli riscontrati nei soggetti trattati con placebo. Inoltre i biomarker della crescita cellulare prostatica (PSA) non aumentarono nel gruppo trattato. Lo studio in sostanza dimostrò che aumentare i livelli circolanti di testosterone non significa automaticamente aumentarne le concentrazioni a livello tissutale. Questo esperimento evidenzia come la prostata sia in grado di regolare la propria esposizione al testosterone: una volta esposta ad una quantità adeguata di testosterone, qualsiasi successivo aumento viene trattato come un eccesso e non viene accumulato a livello tissutale. A livelli molto bassi di testosterone (vicino a livelli di castrazione) la crescita prostatica è molto sensibile ai cambiamenti di concentrazione del testosterone stesso. Ulteriori cali faranno ridurre le dimensioni della prostata e al contrario aumenti della concentrazione tissutale di testosterone faranno ingrandire la ghiandola. Tuttavia una volta raggiunto il livello di saturazione ghiandolare, ulteriori aumenti di concentrazione del testosterone avranno poco o nessun effetto sulla crescita della ghiandola e di un eventuale tumore. Studi sperimentali evidenziano come questo livello di saturazione si raggiunga a concentrazioni piuttosto basse di testosterone.

IL RUOLO DEGLI ESTROGENI

Nella salute di una donna in particolare ma anche di un uomo l’equilibrio tra androgeni ed estrogeni è di fondamentale importanza. E’ abbastanza riduttivo chiamare il testosterone l’ormone maschile e gli estrogeni ormoni femminili in quanto entrambi sono presenti ed hanno funzioni importanti in entrambi i sessi. Quello che rende i due sessi diversi da un punto di vista morfologico e comportamentale è un diverso rapporto tra questi ormoni che per di più varia nel tempo: nella donna prevalgono gli effetti degli estrogeni ma con la menopausa cessa la produzione ovarica di ormoni ma continua la produzione di androgeni (ormoni maschili) da parte delle surrenali lasciando la donna in una nuova condizione di dominanza androgenica. Nell’uomo prevalgono gli effetti del testosterone ma con l’andropausa viene ridotta la produzione testicolare di ormoni e il testosterone viene convertito nel tessuto adiposo in estrogeni da parte di un enzima detto aromatasi. Il maschio passa quindi ad una relativa dominanza estrogenica. E’ lecito quindi chiedersi se questa inversione degli equilibri ormonali sia in qualche modo legata all’aumento di patologie cronico-degenerative che aviene caratteristicamente sia dopo la menopausa che dopo l’andropausa. In effetti sembrerebbe proprio che i maschi con livelli ridotti di testosterone e un eccesso di estrogeni abbiano un rischio maggiore di sviluppare un tumore prostatico. Gli studi pubblicati da Morgenteler e da Rhoden e soprattutto il Prostate Cancer Prevention Trial hanno inequivocabilmente dimostrato come gli uomini con bassi livelli di testosterone abbiano un rischio di sviluppare un tumore prostatico pari a soggetti di dieci anni più vecchi. Questo è importante visto che l’età è il fattore di rischio numero uno nel tumore della prostata. Questi studi fanno emergere una correlazione tra riduzione dei livelli di testosterone e aumento del rischio di tumore alla prostata.

Da queste osservazioni emerge un altro aspetto: la riduzione del testosterone comporta in genere in un aumento della massa grassa che è ricca di armotasi, l’enzima che trasforma il testosterone in estradiolo, il principale estrogeno. E’ noto che la prostata esprime recettori per gli estrogeni e che questi hanno un effetto importante sullo sviluppo e sulla progressione del tumore prostatico tanto è vero che l’uso di anti-estrogeni rallenta la progressione di tumori già esistenti.

CONCLUSIONI

Sebbene l’eziologia del tumore della prostata non sia ancora del tutto chiara è evidente come non si possa più ritenere il testosterone il responsabile di tale tumore. Il quadro è ovviamente molto più complesso di così e del resto se il testosterone ne fosse la causa il cancro prostatico sarebbe una malattia giovanile e invece la sua incidenza aumenta proprio negli anni in cui la produzione di testosterone diminuisce. Studi recenti nel campo della genomica hanno portato alla luce il ruolo di polimorfismi genetici (variazioni individuali di particolari geni) nel determinare il rischio di sviluppare un tumore alla prostata. Di particolare importanza sembrano per esempio essere geni coinvolti nella produzione di steroidi come il gene AT e 5-alfa reduttasi (SRD5A2) che catalizza la trasformazione del testosterone in DHT.

Quello che è certo a questo punto è che per sessant’anni la comunità medica si è rifiutata di usare terapie correttive dell’andropausa per la paura che il testosterone potesse dare luogo ad un cancro. Sembra che questa paura fosse largamente infondata e per questo una comunità crescente di medici oggi ritiene sia necessario trattare le complesse degenerazioni causate dal calo del testosterone nell’uomo che invecchia. Livelli ridotti di testosterone non proteggono dal tumore della prostata e anzi potrebbero aumentarne il rischio soprattutto se associati ad elevati livelli di estrogeni. E’ importante comunque sottolineare che nei soggetti in cui esiste un tumore e soprattutto in quelli già trattati con terapie soppressive del testosterone, una sua assunzione potrebbe accelerare la crescita del tumore.

Articolo "Il legame tra testosterone e tumore della prostata: un mito da sfatare" di  Filippo Ongaro edito dalla casa editrice Salus Infirmorum è disponibile sul sito http://www.edizionisalus.it./ Il Dott. Filippo Ongaro è stato per anni medico degli astronauti presso l’Agenzia Spaziale Europea ed ha lavorato alla NASA e all’Agenzia Spaziale Russa. Oggi è Direttore Scientifico dell’Istituto di Medicina Rigenerativa e Anti-Aging di Treviso e collabora con enti di ricerca tra cui l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e l’Institute for Biomedical problems di Mosca.

pubblicato da:

di Cronolibri - http://www.librisalus.it/

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Stress: riconoscerlo per affrontarlo e vincerlo

Lo stress è la risposta, tutta naturale, del nostro corpo a ciò che ci emoziona, spaventa, eccita.
E’ il modo in cui il nostro fisico recupera carica e affronta le situazioni. Ma quando gli stimoli del vivere quotidiano sono troppi, lo stress diventa negativo e può logorare le nostre difese.
Chi non si è sentito almeno una volta stressato? Stressato dal lavoro, dallo studio, dagli impegni familiari. La giornata è fatta di tanti momenti stressanti che esauriscono le risorse del nostro organismo.

Ma cosa causa lo stress ?

L'organismo reagisce allo stress aumentando la secrezione di certi ormoni e inibendone altri: in pratica esso determina malfunzionamenti chimici del cervello e se protratto nel tempo può causare danni fisici.
I sintomi sono: sensazione di stanchezza, aumento del battito cardiaco, scarsa concentrazione, attacchi di panico, crisi di pianto, attacchi di ansia, disturbi del sonno, diarrea, crampi allo stomaco, colite, malfunzionamento della tiroide, iperattività, confusione mentale, irritabilità, abbassamento delle difese immunitarie, diabete, ipertensione, cefalea, ulcera, etc., fino a sfociare in depressione, il distacco dal mondo, lo scoppio di violenza.

Quali i rimedi?

Le cosa da fare sono:
- imparare a conoscere il proprio corpo e a regalarsi momenti di relax che donano bellezza e rilassano la mente;

- non mettersi in condizioni stressanti, anche banali, non perdendo mai di vista il proprio benessere;

- dedicarsi a qualcosa che piace veramente e che diverte, senza sentirsi in colpa.

- fare regolare esercizio fisico;

- evitare l'uso di calmanti e tranquillizzanti : il loro uso rallenta il ritorno alla corretta produzione di sostanze come la serotonina, noradrenalina e dopamina. Tra i rimedi naturali ci sono la rodiola, il ginseng, la pappa reale.

E' opportuno sottolineare come sia in progressivo aumento lo stress al femminile: oggi essere donna è molto più difficile di un tempo perchè ci si deve barcamenare tra impegni familiari, figli e lavoro, il tutto con un gran dispendio di energie psico-fisiche che molto, troppo, spesso sfocia in stress. L’auspicio è un maggiore sostegno per queste super-mamme di oggi da parte della famiglia ma soprattutto dalla società tutta, con interventi diretti a migliorare e facilitare il loro difficile ruolo.

pubblicato da:

di Giaden Cosmetici srl

Integratori antiossidanti contro i radicali liberi, l'inquinamento e lo stress fisico

Che sono sono i radicali liberi?

I radicali liberi sono prodotti di scarto che si formano naturalmente all’interno delle cellule del corpo quando l’ossigeno viene utilizzato nei processi metabolici per produrre energia (ossidazione).
Se sono in quantità minima aiutano il sistema immunitario nell'eliminazione dei germi e nella difesa dai batteri.

Da un punto di vista biochimico i radicali liberi sono molecole particolarmente instabili in quanto possiedono un solo elettrone anziché due (anione superossido O2-, idrossile OH-, diossido di azoto NO2, ossido nitrico NO-, idrogeno H-, ossigeno O+, ossigeno singoletto O2+, ecc.). Questo li porta a ricercare un equilibrio appropriandosi dell’elettrone delle altre molecole con le quali vengono a contatto, molecole che diventano instabili e che a loro volta ricercano un elettrone e così via, innescando un meccanismo di instabilità a “catena”. Questa serie di reazioni può durare da frazioni di secondo ad alcune ore e può essere ridimensionata o arrestata dalla presenza dei vari agenti antiossidanti.

Durante il metabolismo cellulare, per azione degli enzimi citoplasmatici o mitocondriali, come l’enzima superossido dismutasi (SOD, zinco dipendente), i radicali liberi prodotti vengono trasformati in perossido di idrogeno (acqua ossigenata), tossico e dannoso per le strutture cellulari. A sua volta il perossido di idrogeno, grazie all’enzima catalasi (CAT) e glutatione perossidasi (GSAPx, selenio dipendente), viene ridotto in ossigeno e acqua. L’ossigeno e l’acqua possono ora essere escreti dal corpo attraverso l’urina, il sudore e la respirazione.
Gli ulteriori radicali liberi presenti possono essere resi meno attivi grazie all’azione degli agenti antiossidanti che, interagendo con l’elettrone mancante, permettono ai sistemi enzimatici della cellula di neutralizzarli.

Come agiscono

L’azione distruttiva dei radicali liberi è indirizzata soprattutto sulle cellule, in particolare sui grassi che ne formano le membrane (liperossidazione), sugli zuccheri e sui fosfati, sulle proteine del loro nucleo centrale, specialmente sul DNA (acido desossiribonucleico) dove alterano le informazioni genetiche, sugli enzimi, ecc.

L’azione continua dei radicali liberi si evidenzia soprattutto nel precoce invecchiamento delle cellule e nell’insorgere di varie patologie gravi come il cancro, malattie dell’apparato cardiovascolare, diabete, sclerosi multipla, artrite reumatoide, enfisema polmonare, cataratta, morbo di Parkinson e Alzheimer, dermatiti, ecc.

Come si formano

Oltre alle normali reazioni biochimiche di ossidazione cellulare, contribuiscono alla formazione dei radicali liberi:
- alcune disfunzioni e stati patologici come le malattie cardiovascolari, l'artrite reumatoide, gli stati infiammatori in genere, i traumi al sistema nervoso, ecc.;

- l’ischemia dei tessuti e conseguente riduzione dell’apporto di sangue;

- le diete troppo ricche di proteine (oltre 50%)e di grassi animali (grassi polinsaturi idrogenati);

- gli alimenti non tollerati;

- la presenza di un eccesso di ferro che, nella prima fase della trasformazione, fa liberare dal perossido di idrogeno il radicale ossidrile, che è in grado di attivare reazioni chimiche ulteriormente dannose;

- l’azione dei gas inquinanti e delle sostanze tossiche in genere (monossidi di carbonio e piombo prodotti dalla combustione dei motori; cadmio, piombo e mercurio prodotti dall’attività industriale, idrocarburi derivati dalle lavorazioni chimiche, ecc.);

- il fumo di sigaretta, che è una vera e propria miniera di sostanze chimiche nocive;

- l’eccesso di alcool;

- le radiazioni ionizzanti e quelle solari (ozono in eccesso e raggi UVA e UVB). Le radiazioni solari inducono sulla pelle processi di fotoossidazione che degradano gli acidi grassi polinsaturi delle membrane cellulari e conseguente formazione di radicali liberi;

- i farmaci;

- l’ATTIVITA' FISICA INTENSA, sia di resistenza organica che di forza muscolare, causa un incremento notevole delle reazioni che utilizzano l’ossigeno (aumento della respirazione polmonare, dell’attività dei mitocondri delle cellule muscolari, ecc.) e conseguente surplus di formazione di perossido di idrogeno.

Anche le reazioni biochimiche legate all’accumulo e rimozione dell’acido lattico dai muscoli affaticati, contribuiscono ad innalzare la soglia dei radicali liberi.

Secondo alcuni studiosi, la lisi della membrana cellulare da parte dei radicali liberi (perossili), è una delle cause del dolore muscolare. Lo stesso avviene per i globuli rossi, contribuendo a determinare o accentuare l’anemia negli atleti.

L’atleta allenato è comunque in grado di fronteggiare la presenza di radicali liberi in maniera nettamente più efficace del sedentario o di chi pratica attività fisica saltuariamente.

I nemici che neutralizzano i radicali liberi

POLIFENOLI

Caratteristiche: Composti da più anelli di atomi di carbonio, sono pigmenti (coloranti naturali) presenti in natura. Tra questi ricordiamo la quercetina, l’epicatechina, i flavonoidi (colore chiaro dall’avorio al giallo), le anticianidine, le antocianine (colore rosso), ecc.

Esercitano una particolare azione protettiva dalle lipoproteine a bassa densità L.D.L. (colesterolo che si accumula nelle arterie) che hanno ha un ruolo nella distribuzione cellulare dei grassi e della colesterina.

I polifenoli hanno proprietà antinfiammatorie, antiallergiche e antivirali. Proteggono particolarmente dalla cardiopatia ischemica (malattie delle coronarie, infarto) e dai tumori in genere.

Fonti naturalI: Specialmente frutta e verdura colorata (verde scuro, giallo, viola, rosso, arancione, ecc.) e prodotti naturali da essi derivati:

- cavolo, carota, zucca, fiori di zucchina, spinaci, peperoni, porri, indivia, lattuga, ecc.;

- mirtilli, more selvatiche, lamponi, ciliege, prugne, albicocche, meloni, mele, cachi, aranci, uva nera e i frutti in genere;

- fiori, il polline e derivati (es. propoli delle api).

Particolarmente presenti nei mirtilli sono le antocianine, antiossidanti che preservano anche l’integrità dei capillari e proteggono la retina.

L’uva nera è ricca anche di resveratrol, principio attivo dotato di azione preventiva sui tumori, azione svolta anche dal vino rosso.

Le foglie del tè sono ricchissime di flavonoidi.

VITAMINA C (O ACIDO ASCORBICO)

Caratteristiche: Idrosolubile, resiste bene alla luce ed agli acidi. È scarsamente resistente al calore, alcali, tabacco, antistaminici, barbiturici, contraccettivi, aspirina, corticosteroidi.

Svolge molteplici funzioni biologiche come il ripristinino della vitamina E dai radicali tocoferolo e tocoferossili, prodotti durante la perossidazione dei grassi cellulari. Stimola il metabolismo cellulare, agisce come catalizzatore nella respirazione cellulare ed è essenziale per la formazione del collagene (cemento intercellulare del tessuto connettivo), fondamentale per mantenere elastici i tessuti cartilaginei, vasi sanguigni, ossa e denti. Collabora alla formazione del sangue ed alla integrità dei vasi capillari. Disciplina il ricambio del ferro e ne esalta l’assorbimento. Agisce nel ricambio del calcio, magnesio e zinco. Accresce la resistenza alle malattie infettive e contribuisce al recupero da stanchezza fisica. Combatte anche le nitrosammine (formate dai nitriti e nitrati contenuti in alcuni alimenti industriali).

Non viene accumulata dall’organismo, pertanto la colazione e i due pasti principali dovrebbero garantirne l’apporto giornaliero costante.

Se carente si avvertono sintomi come perdita di sangue dalle gengive, fragilità dei capillari, dolori articolari, perdita di appetito e debolezza generale.

Un eccesso di vitamina C può indurre diarrea, aumento della diuresi, alterazione nell’equilibrio dei minerali e calcolosi renale.
La necessità giornaliera dell’adulto è di circa 60 mg.

Fonti naturali:

- peperoncino rosso piccante, prezzemolo, peperoni verdi, radicchio, spinaci, cetrioli, piselli, rape, patate, cavoli, asparagi, cipolle, carote, cavolfiori, zucche, pomodori, vegetali rosso-arancio in genere;

- aranci, mandarini, limoni, cedri, pompelmi, ribes, mirtilli, lamponi, fragole, banane e frutta acidula in genere;

- poco contenuta nelle carni.

VITAMINA E (O TOCOFEROLO)

Caratteristiche: Liposolubile, non resiste alla luce, al calore, agli acidi ed agli alcali, ai contraccettivi. Viene distrutta da alcuni farmaci.

Le sue funzioni biologiche si evidenziano nel contrastare, in sinergia con il glutatione, la perossidazione degli acidi grassi a livello cellulare. In questa azione produce radicali tocoferolo e tocoferossili che vengono neutralizzati dalla vitamina C e successiva rigenerazione della vitamina E. Interviene nello sviluppo della muscolatura e del tessuto connettivo. Viene definita anche vitamina antisterilità in quanto agisce sulla secrezione degli ormoni sessuali maschili e femminili. Contribuisce alla formazione e salute dei globuli rossi. In sinergia con la vitamina C protegge la cute dall’azione dei raggi solari UVA e UVB.

La carenza rende fragili i globuli rossi del sangue e procura sintomi di debolezza muscolare, difficoltà di concentrazione e apatia.

Non è tossica ma se assunta in eccesso può determinare nausea, vomito, diarrea. Inoltre interferisce con l’assorbimento intestinale delle vitamine A, D e K.

La necessità giornaliera dell’adulto è in relazione soprattutto all’assunzione di acidi grassi polinsaturi. Normalmente ne occorrono circa 10 mg.

Fonti naturali:

- carne, latte e derivati, burro, tuorlo d’uovo;

- olio di germi di grano, arachidi, olio di oliva, di germi di mais, di girasole e di lino, riso e pane integrali;

- olive, noci, nocciole, frutti oleosi, foglie verdi, lattuga, insalata, piselli.

BETACAROTENI E VITAMINA A (O RETINOLO)

Caratteristiche: Precursori della vitamina A sono i carotenoidi (betacarotene, licopene, luteina, ecc.), un gruppo di pigmenti di colore rosso, arancio e giallo presenti nel mondo vegetale (frutta e verdura) e il retinolo che si trova nelle carni degli animali erbivori.

L’enzima carotenasi, presente nel fegato, scinde il betacarotene in due molecole di vitamina A.

Il betacarotene è il pigmento colorato della frutta e della verdura che agisce sulle piante per difenderle dai raggi solari (la stessa azione svolta dalla melanina sulla cute umana).

Il massimo della presenza del betacarotene corrisponde con il massimo della maturazione del vegetale. Indipendentemente dal colore, più il vegetale è scuro tanto più pigmenti contiene, quindi più antiossidanti.

I carotenoidi, in sinergia con la vitamina E e il selenio, prevengono la perossidazione lipidica delle membrane cellulari inibendo i radicali perossili.

Liposolubile, la vitamina A non resiste agli ossidanti, agli acidi e alla luce. Relativamente resiste alle sostanze alcaline ed al calore. Viene distrutta dall’alcool, dagli antiacidi, anticoagulanti e barbiturici.

Assume diverse funzioni biologiche promovendo la nutrizione e la resistenza della cute e delle membrane mucose, specialmente degli occhi, intestino e polmoni. Contribuisce alla sintesi delle proteine, all’accrescimento di nuove cellule, alla formazione dei pigmenti visivi e all’aumento della resistenza alle infezioni. Impedisce l’ossidazione della vitamina C e agisce in sinergia con le vitamine del complesso B, la E, il calcio ed il fosforo.

L’utilizzo ottimale della vitamina A richiede la presenza dell’alfa tocoferolo e dello zinco.

Se carente comporta difficoltà visive crepuscolari, secchezza e ruvidità della pelle, perdita di appetito, scarsa resistenza alle infezioni.

Un eccesso di vitamina A viene accumulato nel fegato e risulta tossico (oltre 10 volte i livelli raccomandati). Può comportare vomito, diarrea, vertigini, debolezza, dimagrimento, ipercalcemia, ingrossamento del fegato e della milza, ipertensione endocranica.
La necessità giornaliera dell’adulto è di circa 1 mg.

Fonti naturali:

- olio di fegato di merluzzo e di ipoglosso, fegato di vitello, tuorlo d’uovo , latte, burro, formaggi grassi, panna;

- carote, broccoli, spinaci, finocchi, bietole, prezzemolo, radicchio, cavolo, verza, insalata verde, mais, piselli, fagioli, pomodori, lattuga, zucca;

- banane, albicocche, pesche, arance, mango, vegetali giallo-arancio in genere.

SELENIO

Caratteristiche: Minerale-traccia attivo sotto forma di seleniocisteina. Invece la sua presenza come seleniometionina diventa disponibile solo se gli alimenti ingeriti contengono metionina. L’assorbimento del selenio avviene nell’intestino tenue.

Svolge molteplici funzioni biologiche come la prevenzione, contro i radicali liberi, sulla perossidazione lipidica delle membrane cellulari, particolarmente se associato alla vitamina E. Contribuisce a rafforzare il sistema immunitario, previene le malattie cardiocircolatorie, protegge la cute, gli occhi e i capelli, diminuisce i rischi di insorgenza del cancro, soprattutto al colon, intestino, polmone e prostata.

I muscoli e il fegato provvedono a rifornire di selenio il cervello e le ghiandole endocrine (ipofisi, tiroide e ghiandole sessuali) che lo utilizzano per svolgere le loro funzioni.

Viene eliminato quasi totalmente attraverso le urine e le feci e, una parte minore, con il sudore e la saliva.

Se carente può comportare cardiopatie, debolezza muscolare, alterazione dei pigmenti dei capelli e della cute, danni al pancreas.

L’eccesso è tossico e può determinare dolori all’addome, diarrea, nausea, irritabilità, stanchezza, dermatiti, alopecia. Un segnale di eccesso di selenio si evidenzia con un caratteristico odore di aglio nel sudore e nell’aria espirata.

Il fabbisogno giornaliero nell’adulto è di circa 55 mcg.

Fonti naturali:

- frattaglie, pesci, molluschi, carni, latte e derivati;

- lievito di birra, germe di grano, pasta (specialmente se di grano duro), riso;

- funghi, noci, aglio, frutta e verdure in genere.

RAME

Caratteristiche: Minerale che nell’organismo umano svolge molteplici funzioni biologiche tra le quali l’intervento nell’azione dell’enzima superossido dismutasi che trasforma i radicali liberi in perossido di idrogeno (acqua ossigenata). È presente nella sintesi dei fosfolipidi, nella produzione dell’acido ribonucleico (RNA), nell’utilizzazione della vitamina C e della tirosina. Favorisce l’accrescimento osseo e lo sviluppo del sistema nervoso. Nei globuli rossi del sangue è richiesto per la sintesi del ferro, indispensabile al trasporto dell’emoglobina. È necessario per tenere uniti collagene ed elastina, per la produzione di melanina e per il metabolismo energetico.

La capacità di assorbimento del rame viene ridotta dalla presenza di zinco.

La carenza di rame provoca sintomi simili a quelli da carenza di ferro dei quali il più evidente è l’anemia.

Un eccesso produce irregolarità nelle mestruazioni, perdita di capelli e insonnia. Abbassa la quota di zinco presente.
Il fabbisogno giornaliero nell’adulto è di circa 2-3 mg.

Fonti naturali:

- carne in genere;

- noci, cereali e pane integrale, legumi.

ZINCO

Caratteristiche: Minerale presente nei muscoli e nel fegato è parte integrante delle ossa e dei denti. Svolge diverse funzioni biologiche che rendono possibile l’azione di moltissimi enzimi. Insieme al rame potenzia l’azione dell’enzima superossidido dismutasi che trasforma i radicali liberi in perossido di idrogeno (acqua ossigenata). Interviene nella formazione delle proteine, in alcune funzioni ormonali e del sistema nervoso, nei processi di accrescimento e di riparazione dei danni ai tessuti e nella difesa immunitaria. La sua presenza si rende indispensabile per l’ottimale metabolismo del fosforo, per la digestione dei carboidrati, per la sintesi dell'acido nucleico e per l'assorbimento delle vitamine. Dipende dallo zinco anche la formazione dello sperma maschile e dell'ovulo femminile. Favorisce la formazione dell'insulina.

La carenza di zinco porta a disturbi anche seri a livello metabolico. Possono provocare una carenza di zinco i farmaci anti- MAO, i corticosteroidi, i diuretici ed altri. L’eccesso di alcol può determinare una carenza di zinco in quanto questo minerale fa parte dell'enzima indispensabile per scomporlo.

L’inalazione o ingestione di cadmio, come avviene per i fumatori, non permette un’ottimale utilizzazione di zinco.

Alcuni alimenti e minerali presenti nella dieta come i cereali crudi, le fibre, la caseina del latte, il ferro, il calcio e il rame, riducono la quantità di zinco assorbita a livello intestinale.

Un eccesso di zinco può impedire l'assorbimento del ferro e del rame.
Il fabbisogno giornaliero nell’adulto è di circa 55 mg.

Fonti naturali: Cibi ad alto contenuto proteico in genere:

- carni, uova, formaggi magri, olio di pesce, molluschi;

- germe di grano, cereali integrali, legumi, semi in genere;

- noci, nocciole e frutti con guscio in genere.

GLUTATIONE

Caratteristiche: Proteina prodotta nel fegato e composta da tre aminoacidi: cisteina, acido glutammico e glicina.

Svolge numerose funzioni biologiche come la formazione, con il selenio, del glutatione perossidasi, un enzima con azione antiossidante all’interno delle membrane cellulari. Impedisce ai radicali liberi di legarsi alle proteine fibrose, salvaguardando così l’elasticità del collagene con benefici per la pelle e per le arterie. Specialmente a livello polmonare interviene nel sistema immunitario e contribuisce all’utilizzo ottimale degli aminoacidi cisteina e cistina. Migliora l’utilizzo e la biodisponibilità del ferro ingerito con gli alimenti. Aiuta l’organismo a liberarsi dai metalli tossici come il mercurio, piombo, cadmio. Tampona gli effetti tossici dell’alcool, degli additivi e sostanze chimiche ingerite o inalate come i nitriti, nitrati, anilina, derivati dal toluolo e dal benzolo, ecc. Lo stesso per gli effetti dovuti a radiazioni e chemioterapici.

NAC n ACETIL CISTEINA

La forma più evoluta di cisteina ,l’unica che riesce a passare indenne attraverso iu succhi gastrici.E’ un componente essenziale del glutatione.

pubblicato da: Fabio Rizzi

di Emporio del fitness

Chemioterapia: alternativa con gli Antiacidi, Buoni risultati

Sembra troppo semplice per essere vero, eppure in un futuro non troppo lontano potrebbe diventare la nuova terapia alternativa alla chemioterapia: i farmaci antiacidità, gli inibitori della pompa protonica e persino il bicarbonato sono il nuovo filone cui si stanno dedicando diversi scienziati, perchè efficaci, senza effetti collaterali e con costi molti più bassi. A fare il punto della situazione sono stati gli scienziati riunitisi oggi all'Istituto superiore di sanità (Iss), in occasione del primo simposio dell'International society for proton dynamics in cancer (Ispdc). Questa nuova terapia si basa su un approccio diverso da quello adoperato finora, perchè parte dall'assunto che i tumori sono acidi. «L'acidità è un meccanismo che il cancro usa per isolarsi da tutto il resto, farmaci compresi - spiega Stefano Fais, presidente Ispdc e membro del dipartimento del farmaco dell'Iss - Ma le cellule tumorali, per difendersi a loro volta da questo ambiente acido, fanno iperfunzionare le pompe protoniche che pompano protoni H+. Se si bloccano queste pompe, la cellula tumorale rimane disarmata di fronte all'acidità, e finisce per morire autodigerendosi». Usando quindi degli antiacidi, anche generici, come gli inibitori della pompa protonica, generalmente adoperati per le ulcere gastriche si può curare il cancro.

"ECONOMICI E NO EFFETTI COLLATERALI" «A differenza dei chemioterapici - continua Fais - questi farmaci non hanno effetti collaterali e hanno dei costi molto più bassi. Basti pensare che quelli usati con la target therapy, che provocano tossicità e resistenza nel paziente, costano 50-60mila euro l'anno a malato. Con questa terapia invece il costo annuale sarebbe di circa 600 euro con il generico, e di 1200 con quelli di marca. Ma le industrie farmaceutiche al momento non sono molto interessate a questo tipo di approccio». Nonostante ciò, l'Iss è riuscito a far partire i primi due trial clinici del genere in Italia: uno presso l'Istituto dei tumori di Milano per il melanoma su circa 30 pazienti, e l'altro presso l'università di Siena per l'osteosarcoma su 80 pazienti. «I risultati sono molto incoraggianti - prosegue Fais - perché‚ questi farmaci, associati ai chemioterapici, hanno migliorato la risposta del paziente alla terapia, anche nei casi in cui non funzionava più, o di metastasi o recidive. Ma i dati devono essere confermati su un numero più ampio di pazienti e serve il supporto delle case farmaceutiche». Lo stesso approccio è stato utilizzato anche presso la Fudan University di Shangai per il cancro al seno, mentre al Cancer Center di Tampa in Florida si sta sperimentando l'impiego del bicarbonato assunto per bocca. A Tokyo invece l'università di Edobashi sta studiando sui sarcomi una vecchia molecola, l'arancio di acridina, che si concentra negli organuli acidi della cellula e dopo uno stimolo luminoso ai raggi X si trasforma in un composto altamente tossico per le cellule tumorali. «Ma la vera svolta - conclude Fais - sarà se avremo l'approvazione per uno studio clinico in cui useremo solo gli inibitori della pompa protonica, senza chemioterapici. Così dimostreremo la loro efficacia e la possibilità di usarli come alternativa alla chemioterapia».
 

L'infarto è più letale per le donne

Il cuore 'tradiscè le donne più degli uomini. E, complessivamente, l'infarto ne uccide di più, anche se è ancora radicata la convinzione che si tratti di un rischio al maschile. Ma se ciò è vero in età fertile, grazie alla protezione degli estrogeni, con la menopausa - quando aumenta il colesterolo 'cattivò (Ldl) e diminuisce quello 'buonò (Hdl), mentre aumentano peso, ipertensione arteriosa e rischio di sviluppare il diabete - i nuovi casi di infarto e ictus cerebrale nelle donne aumentano progressivamente, fino a raggiungere, e intorno ai 75 anni superare, quelli maschili. A sfatare il pregiudizio, sempre più incrinato dai dati epidemiologici, sono gli esperti Servizio di prevenzione e protezione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Spp-Cnr) e della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec), che hanno messo a punto un vademecum ad hoc per 'proteggere il cuore delle donnè, visto che la prevenzione 'in rosà resta ancora molto scarsa. «Gli ultimi dati Istat confermano che le malattie cardiovascolari rappresentano ben il 44% delle cause di morti femminili, contro il 33% negli uomini», spiega Roberto Volpe, ricercatore del Spp-Cnr. «Eppure, sebbene siano oltre 120.000 le donne italiane che muoiono ogni anno per tali patologie, queste sono ancora considerate tipiche del sesso maschile». Da qui l'idea del vademecum dedicato alla 'Prevenzione dell'infarto del miocardio nella donnà. «Il documento intende fornire al pubblico e agli operatori sanitari uno strumento completo e pratico e la prevenzione è un obiettivo spesso raggiungibile, poichè la corretta informazione è la base della prevenzione», aggiunge Maria Grazia Modena, direttore di Cardiologia all'università di Modena-Reggio Emilia e past-president della Società italiana di cardiologia. «Un dato allarmante in tal senso è che le donne colpite da infarto acuto hanno una maggiore mortalità poichè, per via di una sottostima del loro rischio da parte dei medici curanti, ricevono un minor numero di indagini diagnostiche come la coronarografia e vengono trattate meno con farmaci fondamentali per prevenire le recidive come l'aspirina, i betabloccanti e le statine. Senza dimenticare che esistono malattie cardiovascolari tipiche delle donne, come la dissecazione spontanea delle coronarie e delle carotidi», ricorda l'esperta. «Le donne sono poi svantaggiate nella tutela della loro salute - afferma Massimo Volpe, presidente della Siprec e direttore di Cardiologia al Policlinico Sant'Andrea-Università 'La Sapienzà di Roma - per alcuni fattori sociali, culturali e caratteriali quali: il doppio lavoro domestico e fuori casa, la propensione a occuparsi prima dei problemi altrui che dei propri, un interesse prevalentemente orientato alla cura degli aspetti riproduttivi, la limitata partecipazione agli studi clinici sui nuovi farmaci, in cui se le donne non sono più escluse come poteva avvenire nelle sperimentazioni condotte negli anni '70-'80, ancora oggi difficilmente rappresentano il 50% delle casistiche ».

Il documento, oltre a ribadire l'importanza di un corretto stile di vita e di una terapia farmacologica mirata in caso di presenza di fattori di rischio cardiovascolare come ipertensione arteriosa, diabete e ipercolesterolemia, fornisce indicazioni su patologie specifiche da menopausa come le malattie autoimmuni, endocrinologiche o l'ipercolesterolemia. «Per quest'ultima una dieta alimentare a basso contenuto di grassi deve però tenere in conto il fabbisogno di calcio, fondamentale contro l'osteoporosi - sottolinea Roberto Volpe. »L'assunzione di alimenti a ridotto contenuto lipidico ma ad adeguato tenore di calcio, un appropriato apporto di vitamina D e una regolare attività fisica possono permettere di prevenire sia le malattie cardiovascolari che l'osteoporosi«, conclude lo specialista

La crisi di mezza età inizia dai 30 anni

La crisi di mezza età? Accelera il passo e anticipa i tempi. A sorpresa si fa largo già a 30 anni, causata da pressioni sul lavoro, ammesso che ce ne sia uno, e da relazioni che iniziano a 'scricchiolarè presto rivelandosi sempre meno longeve. Un sondaggio targato 'Relatè e condotto in Inghilterra ha infatti rilevato come la fascia d'età più smarrita sia quella che va dai 35 ai 44 anni. Così, se un tempo la crisi di mezza età era considerata un infausto patrimonio dei 50enni, oggi i 30enni sembrano appropriarsene e farla loro. A metterli in crisi, spiega il sondaggio, il desiderio di rapporti migliori in famiglia (22%) e più veri con gli amici (22%), un tradimento in amore (40%) o una relazione finita male con straschichi che hanno aperto la strada al mal di vivere (22%). Emerge, inoltre, la percezione di un tempo che viene vissuto non come si vorrebbe, mentre la giovinezza sembra scivolare via. Il 25%, infatti, vorrebbe avere più tempo da dedicare alla famiglia o agli amici (23%), e il 30% crede che ridurre l'orario in ufficio avrebbe effetti positivi sulle proprie relazioni familiari. Il 21% non nasconde di sentirsi solo. Il lavoro appare come una delle noti più dolenti, con il 28% costretto addirittura a lasciarne uno a causa di cattivi rapporti con colleghi. La fotografia scattata dal sondaggio mostra 30enni che annaspano sempre più, alle prese con lavori che assorbono troppo tempo e rapporti sempre più malconci. Tant'è che sono in molti ad ammettere di usare Facebook e altri social network per avere una possibilità in più per avere contatti con i propri figli. «Tradizionalmente - sottolinea Claire Tyler, chief executive di Relate - la crisi di mezza età si associa ai 50 anni o tutt'al più alla fine dei 40. Ma il Rapporto rileva che questo periodo di smarrimento sembra investire le persone molto prima di quanto ci si aspetterebbe. Del resto - fa notare - è questa la fase in cui si hanno le più alte aspettative, e si cominciano a tirare le somme sulla propria carriera e vita familiare». Cary Cooper, un ricercatore dell'ateneo di Lancaster impegnato a studiare lo stress legato al mondo del lavoro, ammette che le cose sembrerebbero destinate a peggiorare ulteriormente, a causa della difficile congiuntura economica che stiamo vivendo. E invita a non sottovalutare le conseguenze di questa infelicità diffusa. «I costi annuali dei problemi mentali legati al lavoro - avverte - sono stimati in 28 miliardi di sterline. È un problema enorme».

Un Pacemaker nel cervello attenua i sintomi del Parkinson

Gli arti tornano ad essere meno rigidi, il linguaggio più fluido e il tremore sembra essere scomparso. Sono gli effetti che si registrano su un malato di Parkinson sottoposto ad una stimolazione cerebrale profonda o DBS (Deep Brain Stimolation). Da quel momento, i sintomi della malattia vengono abbattuti del 60% ma per la tipologia di intervento cui è stato sottoposto, il paziente dovrà convivere con dei microelettrodi impiantati nel cervello e una centralina sottocutanea sul torace, che ricorda un pacemaker. Lucilla Bossi era una ballerina della Scala quando, a 36 anni, riconobbe i primi sintomi del morbo di Parkinson. Dopo 12 anni di malattia si è sottoposta alla DBS e ha racconta la sua esperienza in molti consessi sull'argomento, tra cui, recentemente ad un workshop internazionale a Varsavia, dove si sono incontrati medici e pazienti. «In questa malattia c'è un insieme di sintomi - racconta l'ex ballerina - che aggredisce la capacità di comunicare: il venir meno dei movimenti spontanei e automatici nei quali si esprime il linguaggio del corpo, l'affievolirsi della voce e il suo farsi completamente priva di inflessioni e incapace di prosodia, l'eloquio che si fa confuso e spesso indecifrabile, il viso trasformato dalla rigidità muscolare in una maschera inespressiva». A sottoporsi alla stimolazione cerebrale profonda sono i pazienti sui quali la terapia farmacologica non dà risultati o comporta effetti collaterali pesanti. Si tratta di «una fetta ristretta della popolazione dei malati di Parkinson - precisa all'ANSA Francesco Saverio Pastore, responsabile della U.O.S. di Neurochirurgia Stereotassica e Funzionale dell'università Tor Vergata di Roma, dove si eseguono questi interventi - che l'intervento non guarisce ma che certamente ricava un forte guadagno in termini di qualita» della vita«.

OPERAZIONE MOLTO INVASIVA L'operazione è piuttosto invasiva. Viene praticato un foro nel cranio, attraverso il quale passano dei microelettrodi e con un sistema di coordinate in 3 dimensioni vengono guidati fino al posizionamento nel sub-talamo sinistro e nel sub-talamo destro, »disturbando un circuito patologico che si è creato a determinate frequenze«, causa dei sintomi del Parkinson. A controllare i microelettrodi ci pensa una centralina miniaturizzata impiantata sotto pelle nel torace e le cui batterie hanno un'autonomia di 8-9 anni. Una centralina esterna, poi, controlla lo stimolatore sottocutaneo. I pazienti che convivono con questa sorta di pacemaker nel cervello riescono ad abbassare significativamente la quantità di farmaci, anche se, in base ad alcuni studi randomizzati condotti a 5 anni dall'operazione, con il passare degli anni, gli effetti si attenuano e ritornano i sintomi della malattia. La DBS, negli ultimi anni è stata applicata con successo anche nel trattamento della sindrome di Tourette, nell'epilessia, nella depressione e in alcuni casi di distonia ma Pastore invita alla prudenza sulla diffusione estrema di questa terapia che, in alcune sperimentazioni condotte in Canada e riportate dalla letteratura scientifica ha mostrato risultati sorprendenti sul miglioramento delle capacità mnemoniche. »Sono certo che il futuro della cura del Parkinson passerà attraverso la terapia farmacologica o le cellule staminali - conclude - ma non è allettante un preoccupante ritorno alla psicochirurgia«.